Se è vero che i poeti sono i cronisti della propria epoca come afferma il romanziere iracheno Younis Tawfik, autore de La ragazza di piazza Tahrir, non può stupire che la direttrice del Corriere del Verbano Elena Ciuti pubblichi, dopo due romanzi, la sua prima raccolta di poesie. Gabriele D’Annunzio, Eugenio Montale, Walt Whitman, tanto per fare qualche nome: la formula dei giornalisti poeti ha nobili ascendenze, anche se possono sembrare mondi assai lontani fra loro. Il lirismo, i sentimenti, l’introspezione da una parte e la fretta, la curiosità, talvolta la sfacciataggine dall’altra. Ma sotto l’abito professionale si nascondono spesso delicatezza e sensibilità.
Elena Ciuti dirige da molti anni lo storico settimanale fondato nel 1879 da Francesco Branca, giornalista e filantropo di Maccagno di origini svizzere e d’ideali risorgimentali. Nel 2012, a un secolo esatto dalla scomparsa del fondatore a Luino l’11 ottobre 1912, ha fatto il grande salto dalla carta al web, conducendo il suo giornale da un glorioso passato di carta al presente e al futuro della modernità digitale (www.ilcorrieredelverbano.it). I contrasti, le apparenti contraddizioni l’attraggono: “Lasciare la carta per la rete significa integrare due culture, mediare fra la tradizione e l’attualità, tra la velocità e l’approfondimento. Cambia la tecnologia, non i contenuti”.
Il suo debutto poetico (Acque Fossili, Piero Manni Editore, 79 pp., € 14) è uno sbocco naturale: “Scrivo da quando avevo dodici anni, la poesia è la compensazione delle emozioni che non controlli, è la scoperta della vita e la conferma nel tempo che non era solo uno sfogo adolescenziale. Questa raccolta è compresa fra il 2007 e il 2013 e chiude un doloroso periodo personale legato alla morte di mia madre. È poesia – quasi – in prosa. Amo il verso libero, il simbolismo, la similitudine, il ritmo giocato su alcune figure retoriche, magari l’ossimoro, il chiasmo. Rifuggo dal sonetto, dall’endecasillabo. Mi piace scrivere in uno spazio arioso e libero, non prestabilito osservando delle regole”.
Non ha autori di riferimento. “Dipende dai miei stati d’animo e dalla diversa percezione legata all’età in cui li ho letti. Ho conosciuto Alda Merini, la considero una scrittrice che pratica la poesia, ha uno spettro molto ampio, spazia nella narrazione, inesauribile. Porta la propria vita nella poesia e tu la segui attraverso quello che dice. Si lascia osservare, si offre con generosità pur nell’asprezza del carattere. Un’interprete splendida ed enigmatica di ciò che la poesia è: rivelarsi e conoscersi, andare fino in fondo, auto-psicanalizzarsi, quasi superare il proprio sé stesso.
Quando pensa al “nonno Branca” che fondò il giornale che oggi lei dirige confessa di trovarsi in bilico, indecisa se abbandonarsi al piacere dei sentimenti familiari o irrigidirsi nel rispetto dovuto alla memoria dell’uomo pubblico, all’impegno sociale e culturale del personaggio più celebre della famiglia. Divisa tra il senso di responsabilità e l’emotività di figlia e di madre, tra la Luino pubblica e la famiglia privata, tra il dovere e le emozioni: “Oggi ci vengono in soccorso la deontologia, la legge sulla privacy e il controllo dell’uso del linguaggio ma non è sempre stato così. Spesso fare il giornale è faticoso, dobbiamo informare, ma senza calpestare nessuno”.
Il Corriere del Verbano significa continuità famigliare e valore della testimonianza. Ma le è rimasto dentro qualcos’altro da esprimere, di privato, di intimo e spirituale. “Mi sarebbe piaciuto dipingere e insegnare in una scuola per ragazzi in difficoltà. Sono laureata in pedagogia alla Cattolica di Milano. Ho studiato filosofia morale con il professor Adriano Bausola che spiegava Sartre accanto a Sant’Agostino e al cattolicesimo liberale di Antonio Rosmini. Questa mia raccolta di poesia è intessuta del dialogo interiore con il trascendente. La fede per me è ricerca del divino e la puoi trovare al Sacro Monte di Varese o sentendo le campane alla stazione di Napoli che penetrano i fischi dei treni, nella gioia e nella desolazione di una città”.
Il tema della separazione attraversa l’intero libro. La dolorosa perdita della madre trova conforto in un pensiero filosofico che ricorda la metempsicosi o qualche forma di reincarnazione secondo il sentire di un cristianesimo arcaico. Scrive: “Potresti avere accesso a un’altra vita; potremmo tutti aver accesso a un’altra vita, a tante altre vite… non sei più tu, sei un bimbo di tre mesi, un delfino dei grandi oceani, un cerbiatto che abita il bosco”. E più avanti: “Dio t’ha vista… non restare, t’ha detto, vai pure, ricomincia ad amare, trova un giardino, un’ala, dei pioppi dove migrare, lì dove avrai scelto stai tranquilla…”. “Un rinascere – ammette – che rientra nella mia visione dell’Oltre”.
Infine il lago, presenza consolatoria e fonte di sicurezza. Scrive: “Cannero è li, a destra, sangallo di specchi, vetro di pietre, sognante a porgere dai suoi alberghi, dagli hotel, fraseggi di carte, di fiori, di parlate, di arance e di fogli di beole, di saggine, di liquori. Cannero è li, alla mia destra, intanto che lascio il passeggio del lungolago nuovo di Luino e torno a casa… “la prossima volta si va a Cannobio, che la nostra famiglia viene anche da lì” e tornavamo sul battello che il sole già dormiva, ma pure sempre non oltre le diciannove, perché presto i battelli riposano e si resterebbe bloccati alla riva piemontese…”. L’autrice spiega: “Il lago è acqua, l’elemento in cui siamo stati concepiti, mi attrae, rispecchia la natura partecipe ma è anche fonte di paura, immagine della morte”.
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