Come se fossi attorno al fuoco, seduto in poltrona, mi passano davanti agli occhi immagini di sterminio trasmesse dallo schermo: sangue di bimbi massacrati sotto i bombardamenti, migranti che affogano nel mare, giovani trucidati, donne accoltellate da uomini insani, adolescenti pestati a sangue. Così ogni sera si teorizza la violenza della storia. Hanno parlato di guerre con la voce fredda della quotidianità. Io sono impotente, ho il cuore opaco, quasi senza vita. Non mi resta che chiudere gli occhi e avere un pensiero: “Ma fino a quando? Fino a quando i bimbi impareranno dalle parole che stenteranno a capire: che cos’è la guerra? Che cos’è la fame? Che cos’è il naufragio? Che cos’è l’odio? La violenza? La tortura?”.
Il male non è più un fatto straordinario, entra nelle nostre case come un fatto ordinario, quotidiano. Diventa abituale, “banale” – come scrive Hannah Arendt. Ormai lo diamo per scontato e non ci scuote più dal quieto vivere.
Ho un nitido ricordo di me, bambino di non ancora cinque anni, che ode l’annuncio di mio padre: “La guerra è finita!”: non sarei più stato svegliato di notte dalle sirene e portato al più vicino rifugio, uscito da quel ricovero; non sarei rimasto più sbigottito davanti alle alte fiamme rosse, gialle, verdastre provenienti dall’incendio del tetto di legno a forma di carena rovesciata della basilica palladiana; non avrei più udito lo stillicidio ansimante dell’aereo “Pippo”, seguito dal trambusto domestico che ci portava a spegnere le luci e a chiudere le imposte; non avrei più udito gli schianti che mi facevano portare le mani alle orecchie. Che gioia quel giorno! Mia madre si era messa a piangere, nel ricordo di mio fratello sedicenne ucciso poco più di un anno prima nella guerra fratricida.
Quei brani della mia vita sarebbero rimasti scritti in modo straordinario nelle cronache della mia vita. Così pure l’alluvione del Polesine del ‘51 e la caduta delle dighe del mare del Nord che permisero, due anni dopo, l’inondazione dei Paesi Bassi, successivamente, i terremoti, le guerre, prima la Corea, poi il Vietnam, quella d’indipendenza dell’Algeria, la pandemia dell’asiatica che colpì anche me. Sono impressi nel mio cuore le manifestazioni per Trieste italiana e contro l’invasione russa nell’Ungheria. Tutti eventi fuori dalla vita feriale, dalla quotidianità che costituivano un’eccezione e che faceva scattare la solidarietà fra parenti, alla radio, a scuola, nelle piazze.
Oggi questa passione si è smorzata o addirittura spenta. Le relazioni fra gli esseri umani sono divenute inespressive e la partecipazione corale agli eventi straordinari si è incenerita sotto l’individualismo egoista più sbrigliato. Lo straordinario è divenuto abitudine e il gesto quotidiano si è tramutato in straordinario.
Pensiamo ai venti di guerra che sono tornati a imperversare in Israele, frutto di vecchie ferite che non si sono mai rimarginate e sempre pronte a riaprirsi. Fra le tensioni e i tumulti di Ramin e Haifa, in mezzo alla violenza di cui ci parlano giornali e televisione, tra la paura per il lancio di razzi a cui rispondono quelli di missili, ci sono persone sia arabe cristiane che cristiane palestinesi che ebree le quali vogliono vivere in pace e in buone relazioni. Desiderano abbattere il muro di diffidenza e di frustrazione frequentando le stesse scuole (sono ben sette!) in cui vogliono catturare la storia e non farsi soffocare l’anima che rischia di accasciarsi sotto il disprezzo di molti e l’apprezzamento di pochi. Lo stesso succede nella cittadella della pace “La Rondine”, vicino a Arezzo, dove palestinesi ed israeliani convivono, studiano e si preparano ad essere promotori di azioni e di progetti per la risoluzione del problema arabo-palestinese. In mezzo alla violenza crescono questi semi di pace.
Sentiamo l’animo lacerarsi davanti alle imbarcazioni verniciate di bianche cariche di uomini che affondano in quel mare di cui ci affanniamo a salvare pesci e alghe, ma non i nostri fratelli che affogano. Eppure ci sono, qua e là, briciole di compassione e di solidarietà: a Milano, c’è Umberto che ha raccolto i minorenni egiziani ospiti di case-famiglia a cui insegna il necessario per far acquisire a loro il diploma di scuola media e contemporaneamente dare loro un diploma che li porti ad essere cuochi o muratori; a Trieste ci sono giovani che riescono a trovare ospitalità a singoli e famiglie profughi della rotta balcanica e a loro offrono corsi d’italiano e c’è chi da Torino e da Vicenza si impegna a far arrivare nei campi profughi della Bosnia e della Croazia vestiti, medicine, cibo; a Roma c’è la Comunità di Sant’Egidio che assiste le persone arrivate attraverso i corridori umanitari, senza parlare dei medici, infermieri, volontari che accorrono a Lampedusa per offrire un aiuto, ma soprattutto un gesto, un abbraccio fra l’aria torbida di disprezzo da parte di chi li vorrebbe a casa loro. Sono, assieme a molti altri, esempi straordinari di vita ordinaria costruita su ideali, non su ideologie. Vita ordinaria di cui pochi parlano.
Non si sa quando la pandemia finirà, ma penso che non si potrà tornare allo stile di vita di prima: dovremo vincere l’egoismo, il panico irrazionale, la solitudine. È certo che la tristezza individualistica potrà essere vinta solo dalla stagione propizia di un’accresciuta fratellanza, che la paura potrà essere vinta dalla collaborazione scientifica, che la solitudine potrà essere vinta dal rafforzamento tra generazioni. La pandemia – fatto straordinario! – potrà essere vinta da fatti ordinari: maggiore giustizia sociale oscurata in questi giorni dalle contese fra generazioni e dalla lotta per garantirsi il vaccino desiderato.
Se il bisogno ci ha tenuti uniti nella prima fase dell’epidemia, successivamente è subentrato l’egoismo. Verrà il tempo della collaborazione. I segni storici ci indicano che qualcosa si sta muovendo, che l’invisibile virus può esser vinto non solo dai vaccini, ma da una maggiore coesione, dalla quotidianità a fare il bene, sentimento che migliaia di medici, di infermieri hanno dimostrato di fronte al male, chinandosi sui malati, assumendosi la responsabilità del bisognoso fino a impegnarsi in un comportamento che ha coinvolto tutto il loro essere fino ad accompagnarli all’altra riva restando a loro vicini, tenendo loro la mano, chiudendo loro gli occhi: azioni semplici e quotidiane che possono diventare il seme per una nuova umanità.
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