Due nomi, Emilio e Bepi, due mestieri diversi, il medico e il notaio, un cognome unico: Bortoluzzi. Ma soprattutto una passione in comune e cosa rara tra due fratelli: la Poesia. Se ne sono andati così, in questi ultimi tempi non prima di avere disseminato la loro lunga vita di anni, 96 il primo e 102 il secondo, e con due famiglie dove l’impegno civile è stato l’insegnamento di due padri, mariti, zii, nonni e colleghi, ed è entrato nel dna del vivere quotidiano. Così la città di Varese può dirsi orgogliosa di averli adottati da una città ancor più grande: Venezia, entrambe con la lettera “V”, come, vita, valore, valigia, le prime che mi vengono in mente delle 2352 parole che nel dizionario italiano iniziano con la lettera “v”. Così da nobili “immigrati”, e in questo mi riconosco anch’io come lombardo-veneto, hanno dato lustro anche al nostro territorio, passando il testimone della poesia, alla storia, al mecenatismo, alla fotografia, alle parole, alla politica, alla cultura, all’insegnamento, alla difesa del Pianeta, alla creatività artistica, senza mai sottrarsi agli impegni famigliari e professionali.
Uomini a tutto tondo, che hanno vissuto a “395” gradi le loro esistenze, donando una parte delle loro “sapienzialità” agli altri. E queste poche righe non solo per riconoscere loro proprio questo merito, ma perché lo hanno insegnato e divulgato nel corso della loro intensa esistenza. Quanti professionisti, non sempre e non tutti, lo hanno fatto o lo faranno? Quanti medici o quanti notabili lo fanno? Quasi tutti pensano alla politica della carriera, al posto nel mondo, alla famiglia, a godersi la vita e i frutti del loro lavoro, come è giusto che sia, ma questo impegno è per me il valore aggiunto che dovrebbe essere di ogni uomo capace di pensieri alti, colti e condivisibili.
Tutti dicono di amare la città ma sono in pochi poi a difenderla, una frase che dice tutto dell’impegno civile che dovrebbe essere invece una parte importante della nostra vita, una militanza di tutti i giorni che contraddistingue gli uomini superflui da quelli indispensabili, almeno chi ci tiene a coltivare il proprio giardino anche perché diventi il giardino di tutti come il sapere umano.
“Io ho quel che ho donato” scrisse il grande vate, e questo dono, loro, lo hanno reso ancora più nobile attraverso la parola e la sensibilità verso la res pubblica insegnandoci che la vita non è solo un fatto privato, ma una testimonianza nel mondo del proprio passaggio fatto anche per l’amore verso gli altri, e per le opere della propria esistenza umana, che segnano il nome e il cognome che il destino dà alle nostre vite. Pur avendoli conosciuti entrambi grazie a questo denominatore comune, e sapendo poco dei loro rapporti personali, penso che poco conti, per quella parte fondamentale del testamento morale che ci hanno lasciato insieme e per questo dico loro: grazie, Emilio e grazie Bepi.
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