A scuola abbiamo sempre valutato la Groenlandia come una stranezza: enorme in estensione, pochissimo abitata da misteriose popolazioni, forse ponte nel Medioevo del passaggio dei Vichinghi verso le praterie del Canada. Ma così coperta di ghiacci e puntellata di pochissime case rosse nelle rare radure accessibili, non ci ha mai interessato né per la sua storia, né per la geopolitica che la riguardava.
Invece le elezioni parlamentari che si sono tenute il 6 aprile 2021 sono state seguite ad ogni angolo del mondo. Vediamone il perché.
Alla fine, il partito indipendentista Inuit Ataqatigiit (La Comunità Inuit – Ia) ce l’ha fatta. La formazione di opposizione, ambientalista e di sinistra, ha battuto il partito di governo Siumut, Una vittoria storica, considerato che è la prima volta che Simiut perde la maggioranza in parlamento dal 1979, e un voto che avrà ampie ripercussioni non solo sui 50.000 abitanti, ma sugli equilibri geopolitici nell’Artico. In gioco infatti, non c’erano solo i 31 seggi del piccolo parlamento groenlandese, ma le sorti dell’immenso progetto minerario Kvanefjeld, che secondo le proiezioni costituirebbe il secondo giacimento di metalli rari più grande al mondo, e la quinta più grande riserva di uranio. Progetto a cui la comunità inuit si oppone con forza per i rischi ambientali e di inquinamento.
La partita elettorale non si è giocata solo sullo sfruttamento di risorse: un altro tema chiave ha riguardato il riscaldamento globale che lo scorso anno ha causato uno scioglimento record dei ghiacciai. Un problema di non poco conto per un paese che vede l’80% del suo territorio ricoperto da ghiaccio per tutto l’anno. E lo scioglimento ha aumentato le superfici percorribili lungo le rotte artiche, riducendo i tempi di navigazione e alimentando le rivendicazioni incrociate tra paesi rivieraschi, già in competizione per le risorse energetiche sottomarine.
In Groenlandia lo sviluppo del settore minerario è al centro del dibattito politico da anni. Il partito socialdemocratico Siumut (Avanti) è favorevole a concedere il nulla osta definitivo alla società australiana Greenland Minerals and Energy (poi scalata dalla cinese Shenghe Resources Holding Ltd di Shanghai) per il progetto Kvanefjeld. L’attività estrattiva creerebbe infatti centinaia di posti di lavoro e milioni di euro di ricavi all’anno. Oggi però la vittoria di Ia cambia le carte in tavola e avrà un notevole impatto sulle future politiche ambientali del paese. Una miniera di uranio a cielo aperto in quelle condizioni climatiche potrebbe inquinare con polveri radioattive l’intera Groenlandia meridionale e i suoi mari, essenziali per l’economia locale basata sulla pesca.
Quella dei ricavi non è una questione secondaria per la Groenlandia, che rivendicherebbe l’indipendenza dalla Danimarca, auspicata da molti. L’isola potrebbe infatti diventare uno dei maggiori produttori al mondo di terre rare, un insieme di 17 minerali essenziali per la fabbricazione di prodotti di uso comune, come smartphone e computer, a quelli necessari per la transizione energetica (turbine eoliche, pannelli fotovoltaici e macchine elettriche). Anche per questo, Cina e Stati Uniti – in aperta competizione per il controllo di questi elementi – hanno osservato con attenzione il voto in Groenlandia e i suoi possibili esiti.
Ma se le potenze mondiali guardano con sempre maggior interesse alla Groenlandia, è anche per la sua posizione geografica sulla rotta artica, che lo scioglimento dei ghiacci ha reso ormai percorribile tutto l’anno.
Non è un caso che, nel 2019, l’allora presidente americano Donald Trump manifestò l’interesse degli Stati Uniti ad acquistare l’intera isola, ricevendo un secco ‘no’ da Copenaghen. Già negli ultimi decenni, gli Usa ci hanno costruito diverse stazioni meteorologiche e basi militari, tra cui quella di Thule – la più importante postazione del Pentagono nell’emisfero settentrionale dai tempi della Guerra Fredda, a 800 chilometri dal Polo Nord – e vorrebbero edificare tre nuovi aeroporti. Ma tra giacimenti di materie prime e nuove rotte per il traffico marittimo, il confronto si fa sempre più muscolare: la settimana scorsa il Cremlino ha messo in scena una prova di forza senza precedenti, con una serie di missioni combinate di tre sottomarini nucleari emersi tra i ghiacci polari a poche decine di metri l’uno dall’altro. Uno sfoggio di potenza che dimostra che se i ghiacci diminuiscono, intorno all’Artico le tensioni continuano a salire.
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