“Arrivammo infine a Varese. Il camion fermò la sua corsa in piazza XX settembre dove c’era la casa della famiglia Brusa Pasquè. Mi rivedo sul marciapiede della piazza all’angolo con via Vittorio Veneto con tutti i miei cari. Salvi!”. Sono i primi giorni dell’agosto 1945 e con queste parole si chiude l’odissea della famiglia Russi, “ebrei misti” residenti a Casbeno, nella Confederazione elvetica. Era cominciata due anni prima quando la città giardino era stato occupata dai tedeschi (12/9/1943) senza incontrare alcuna resistenza e quando dal Lago Maggiore arrivarono le notizie delle stragi compiute dalle SS fra Arona, Meina, Baveno: cinquantasette le persone assassinate, in gran parte finite a colpi di “chiavi inglesi” per risparmiare munizioni, e poi gettate in acqua con al collo pietre legate con filo di ferro per farle sparire per sempre. Queste tragiche notizie indussero l’ingegnere civile Ugo Russi e la moglie Carolina “Lina” Stolfa, entrambi triestini, cattolici ma considerati “ebrei misti” a causa delle origini semite del capofamiglia, a rompere gli indugi e a raggiungere la Svizzera per mettere al sicuro la numerosissima famiglia. Il padre con le quattro figlie più grandi attraverso la Valtellina, la madre con le ragazze più piccole attraverso il comasco. Un’operazione rischiosa e complicata che andò a buon fine anche grazie all’aiuto fornito da alcuni sacerdoti varesini amici, come Don Franco Rimoldi dell’Oratorio San Francesco, e dalla rete di resistenza laica che aveva come referente Calogero Marrone, allora capo dell’Ufficio anagrafe del Comune di Varese.
L’unico maschio, Renzo, diplomato al Liceo scientifico cittadino poi anche lui ingegnere come il padre, se ne era invece andato un mese prima per sfuggire alla leva militare promossa dalla Repubblica di Salò per le classi 1923,1924, 1925. Dopo un tentativo fallito entrò in Svizzera nella zona di Clivio grazie da un lato a un militare della Guardia di Finanza che “sentito il caso, sollevò un lembo della rete di confine per farmi passare e dall’altro un soldato svizzero a cui si rivolse il papà in lingua tedesca che mi lasciò entrare”. Cosi per il giovane Russi cominciò la sua avventura di internato in Svizzera che racconterà anni dopo in un diario che ha per titolo “La mia fuga in Svizzera con i genitori e nove sorelle per sfuggire alla Shoah” diventato oggi il quaderno numero otto delle Edizioni amici della Resistenza. Curato con il puntiglio e la determinazione abituali da Franco Giannantoni, giornalista e storico varesino di grande affidabilità, il saggio narra il lungo viaggio di Renzo Russi in ben nove campi di internamento disseminati in buona parte del territorio elvetico. In Ticino, nel Cantone Soletta, nel Vallese, nel Giura bernese conobbe la realtà di una semi prigionia fatta di misurata accoglienza ma anche di regole rigide, di contrasti con gli altri gruppi nazionali presenti, di scarsi contatti con l’esterno, di divieti dal fare attività politica e di lavoro soprattutto nella raccolta delle patate e nel dissodare terreni incolti. Insomma una vita opaca, sospesa, rarefatta tra gli incanti di un paesaggio all’epoca ancora incontaminato. Luoghi dove le notizie della immane tragedia che si stava consumando oltre le frontiere della Svizzera entravano comunque solo attraverso qualche notiziario di “Radio Londra” e la voce inconfondibile del colonnello Harold Stevens che con i suoi notiziari divenne simbolo di libertà e speranza per chi si opponeva al nazifascismo.
Per il curatore il diario di Renzo Russi è anche occasione per riformulare un nuovo sintetico bilancio sulle ondivaghe politiche della Confederazione in fatto di accoglienza; sulla fuga degli ebrei attraverso i numerosi punti di passaggio lungo la frontiera del varesotto. Tentativi spesso frustrati dai tradimenti prezzolati dei passatori e dalle rigidità talvolta incomprensibili e sorde delle autorità elvetiche. Episodi di cinismo che costarono la deportazione e la vita a tante persone in fuga. Insomma luci (quasi 294 mila comunque i rifugiati accolti di diverse nazionalità) ma anche ombre inquietanti su un paese neutrale sì ma con grandi interessi economici nelle industrie tedesche. Tutto questo è stato messo definitivamente a fuoco nel “Rapporto finale” (2006) della Commissione indipendente di Esperti della Confederazione, presieduta dallo storico Jean – Francois Bergier. Sei anni di intensi lavori di ricerca e analisi su quel tragico periodo della storia europea. Un indagine severa che ha stigmatizzato la strategia del rèfoulment (respingimento) di migliaia di ebrei – adottata a geometria variabile da Berna fra il 1942 e il 1945 – che ha in parte macchiato la grande tradizione umanitaria della Svizzera.
Il volumetto, con il suo ricchissimo apparato di fotografie, documenti, verbali e disegni dei luoghi che ospitarono Renzo Russi, sarà presentato sabato 5 giugno alla libreria Ubik in piazza Garibaldino a Varese. Con Franco Giannantoni ci sarà anche Francesco Scomazzon, autore nel 2005 del libro “Maledetti figli di Giuda, vi prenderemo”, la caccia nazifascista agli ebrei in una terra di confine Varese 1943 – 1945.
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