Non conosco don Ernesto Mandelli, l’autore dell’articolo “Ricca povertà” apparso su queste pagine il 16 aprile scorso. Non lo conosco, ma mi sento in sintonia con lui. Un prete che si pone delle domande è un prete che non si accontenta del “si è sempre fatto così”. Deve essere un prete irrequieto, ma non turbato né ribelle, un prete che ama il suo gregge e la Chiesa universale. Un prete non ama i silenzi, “che non sono virtù se non provengono dall’amore, ma dal più egoistico desiderio del quieto vivere:” così scrive Giulio Bevilacqua, il parroco creato cardinale da Paolo VI. I cristiani, che sono fermento, lievito, sale del mondo si sono ridotti a sposare convivenze fatte di conservatorismo, di agiatezza assunta in un ordine sociale iniquo piuttosto che prendersi in carico la fatica d’interpretare la realtà che sovverte anche i più sofisticati piani pastorali fatti a tavolino.
Don Ernesto pone nove “perché?” – ma potrebbero essere molti di più! – sull’attuale crisi della fede nel mondo occidentale. E fa rimontare le cause “all’attrazione forte verso il dèmone di questo mondo: il danaro” e “all’allontanamento dal Dio del Vangelo”. Ben inteso, ci sono molte altre cause, ma, sulla scia di questi due motivi, vorrei limitarmi a riflettere su uno dei due giudizi, rimandando ad un altro mio intervento le riflessioni sulla seconda causa.
Enzo Bianchi vede nella bestia dell’Apocalisse che ha un potere enorme (le dieci corna) e che esercita un grande dominio (le dieci corone) il “dio danaro”. È vero: il benessere – cioè “l’essere bene” – ereditato dai nostri padri che hanno creato il “miracolo economico” del dopoguerra – si è ridotto ad uno sfrenato consumismo, dove “tutto” – anche i sentimenti più belli – si pretende di avere con il danaro. Come combattere questa ingordigia di danaro? Come liberarci dal drago che tutti idolatriamo?
Ci sono stili di vita da cambiare. Occorre essere anzitutto più sobri. Ce ne siamo accorti in questi giorni di pandemia. Perché sono così numerosi i ristoratori, i proprietari di pub, di bar, di fast food, di pizzerie che dichiarano ora – e giustamente – di essere sul lastrico? Perché di essi c’è stata una grande richiesta. Ancor prima della pandemia, l’Italia non stava così male come dicevano le cifre del deficit, del debito pubblico, del PIL. Ricordo un presidente del Consiglio che, per dimostrare che il paese godeva di ottima salute economica, dichiarò tutto giulivo: “I ristoranti sono pieni, le agenzie di viaggio ricevono prenotazioni per viaggi all’estero”. Ma le famiglie numerose, i giovani disoccupati, i cassaintegrati, la donna o l’uomo separato con figli a carico non chiedevano di andare al ristorante o in Papuasia: chiedono ancora oggi lavoro. Quel presidente credeva di svincolarsi da troppi determinismi liberalistici, offrendo non il benessere, ma l’opulenza fittizia.
E perché sono aumentate le palestre per rinvigorire il corpo e non incontro più comitive di giovani che arrancano sui nostri bei monti? Perché ultimamente sono aumentati i centri di tatuaggio, quelli estetici, i negozi che ti offrono miracolanti cure dimagranti e contemporaneamente è aumentata la vendita di alcoolici? Perché gli stadi erano stracolmi di tifosi urlanti o di giovani fanatici in preda ai vaneggiamenti di uno strimpellatore? E le discoteche perché erano così stracolme? Perché ormai la cultura d’oggi ci ha inebriati con il divertimento come fonte per allontanare la realtà e come rifugio delle angosce. Lo spirito di povertà induce il cristiano ad essere sobrio per essere vicino al fratello più povero in una solidarietà che è testimonianza evangelica di fratellanza.
Al contrario, l’istinto del possedere è risvegliato da questa società tutta protesa a creare nuovi bisogni, a creare nuovi prodotti per consumarli e far guadagnare sempre di più uomini senza scrupoli. Sono spariti i momenti di evasione per lo spirito come può essere una visita ad un museo, una passeggiata o una biciclettata lungo un fiume o attorno ad un lago. Non si cercano soluzioni più umane per vivere bene, si cede alla tentazione del divertimento spesso ingannevole. Sobrietà vuol dire “sapersi accontentare”, non riporre la speranza solo nei beni materiali e allontanare da noi l’avidità di possedere, la smania di ostentare ricchezza o la T-shirt all’ultima moda.
Anche i nostri figli dovranno imparare ad essere più sobri. Noi genitori dovremo offrire quanto a loro serve per un sano divertimento senza che piazze e vie dei nostri centri diventino luoghi per la “movida”. Ai giovani dobbiamo offrire prospettive di vita piuttosto che un presente godereccio.
La scuola deve tornare ad essere luogo di apprendimento che esige spirito di sacrificio, capacità di misurare e di misurarsi, costanza, volontà di superare gli inevitabili insuccessi. Gli insegnanti non dovranno confondere il coraggio dell’autorevolezza con la prudenza, dovranno usare tecniche e strumenti tecnologici per far maturare negli studenti capacità per interpretare la realtà e non solo per rendere più agevole l’apprendimento.
Il danaro, poi, ha contagiato la nostra vita politica. I cristiani impegnati in questa alta forma di carità sono stati così ingenui e miopi da non cogliere le situazioni storiche nuove e l’indignazione dei cittadini. La spirito di povertà del politico resiste alla tentazione di ricercare il prestigio o il successo esteriore.
Il cardinale Michele Pellegrino, nella lettera pastorale scritta esattamente cinquanta anni fa e citata da don Mandelli (un capolavoro in cui la lettura della modernità è vista alla luce delle testimonianze delle prime comunità cristiane e dei Padri, di cui p. Pellegrino era un profondo studioso!), aggiunge: “Si tradirebbe il senso del messaggio evangelico in tema di povertà se si riducesse l’impegno del cristiano alla lotta contro la povertà…[essa] vuol dire non riporre la speranza nei beni, pur necessari alla vita, che sono strumento per realizzare valori più alti e più degni dell’uomo…[vuol dire] non mirare al benessere come scopo supremo dell’esistenza…”.
“Tutto si svolge come se il cristiano vivesse in un mondo fittizio”. – ha lasciato scritto il cardinale Suhard, arcivescovo di Parigi durante l’ultima guerra. Sì, c’è l’abitudine di essere cristiani come c’è l’abitudine di mettere il cappello quando fa freddo. La vita di alcuni cristiani può portare scandalo, ma la fede non può ridursi a scandalismo inutile. Anche la Chiesa e le sue istituzioni dovranno rinnovarsi all’insegna della sobrietà, della povertà. Si dovrà iniziare dal rendere le nostre Eucarestie domenicali luogo di incontro, di festa, di comunione e di attenzione verso chi più soffre, come dicono gli Atti degli Apostoli citati da don Mandelli. ”L’allontanamento dal Dio del Vangelo” non ci sarà più quando si cercherà e si realizzerà in termini moderni la condivisione fraterna come facevano i primi cristiani, quando la frazione del Pane – la comunione, come ancora è chiamata – non sarà un semplice un rito, un precetto, ma vita da cui si riconosceranno i cristiani.
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