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Parole

SENSO DELLA CASA

MARGHERITA GIROMINI - 23/04/2021

casaMi accorgo oggi del sotterraneo miglioramento prodotto dal lungo periodo di emergenza Covid nel mio rapporto con la casa.

Per anni ho percepito la casa come luogo che esiste ed è organizzato intorno alle esigenze personali dei componenti della famiglia, un luogo prevalentemente funzionale dove ci si prepara per l’altrove.

Durante i ripetuti lock down, nel tempo più o meno cogenti, ho attraversato le diverse fasi di permanenza in casa ma solo ora riesco a razionalizzare gli step attraversati, sollecitata da una trasmissione (di cui purtroppo non sono più riuscita a recuperare il podcast) orecchiata un po’ distrattamente per radio.

Il conduttore disquisiva sul “senso della casa” mettendo in luce le modificazioni percepite da tante persone durante la pandemia.

All’inizio, anche per me, la casa è stata un rifugio dal virus, uno spazio blindato dentro cui contenere le paure create dalla circolazione di un nemico tanto infido quanto sconosciuto.

Nel corso delle rare uscite mi muovevo quasi trattenendo il respiro, i pensieri oscurati dai ricordi dei numerosi film sul “day after” dei disastri nucleari.

Desideravo solo rientrare il prima possibile nel mio rifugio – bunker.

Con l’allentamento delle misure più restrittive, eravamo alle porte dell’estate, la casa prendeva dentro di me la forma più morbida dell’oasi: uno spazio dove è rassicurante restare a lungo, pur essendo autorizzati a muoversi all’esterno con maggiore libertà. Era il nido che dà serenità e sicurezza, il luogo noto, la sede naturale in cui rispecchiarsi e riconoscersi padroni di sé e dei propri spazi.

Gli psicologi hanno suggerito la metafora della casa – castello che offre un tetto e mura di cinta: chi ci vive prova quel senso di appartenenza che fa sentire lontani e innocui i nemici esterni.

Al riprecipitare autunnale della situazione di pandemia ci si è trovati di nuovo obbligati in casa.

Ed è forse qui che è iniziata per me una fase nuova.

Il luogo che era stato il rifugio, poi il nido, infine il castello, ora lo sentivo più profondamente “mio”: reale, concreto, il luogo che coincide con me e mi rappresenta.

Mi sono trovata a desiderare di sostarvi più volentieri, a guardarmi intorno con occhi nuovi, a riconoscere gli oggetti che la compongono e di cui provavo a ricostruire la storia: da dove arrivano, da quando abitano con me, che cosa mi dicono dei giorni passati.

Anche per altri amici e conoscenti sembrava scattata la fase dell’innamoramento della casa: qualcuno ha catalogato meticolosamente tutti i libri, un lavoro impegnativo che ha richiesto giorni e giorni; qualcun altro si è accinto a ripulire, riparare, riorganizzare, abbellire, sostituire oggetti, attrezzi, suppellettili.

Io ho aperto armadi e cassetti ma per catalogare, solo a mente, il loro contenuto.

Ho scoperto cose che non ricordavo di avere, né di avere acquistato o ricevuto: oggetti senza età, dalla confusa provenienza ma ai quali ho provato ad attribuire una collocazione affettiva.

Ho scartato senza rimpianto gli oggetti che non mi ricordavano alcunché.

Nonostante questo lavorio la casa non è più in ordine di prima, per lo meno non lo è in modo non visibile. Però percepisco chiaramente che sono stati allacciati dei fili profondi tra me e il suo contenuto.

Ho maggiore consapevolezza del tempo trascorso dentro questo spazio e coltivo l’illusione che “dopo” avrà un senso più ritornare alla vita quotidiana e sarà più significativo il tempo dentro la propria casa.

Come suggeriva il conduttore radiofonico della trasmissione – stimolo, durante la pandemia in tanti abbiamo percepito la casa come il luogo che può esprimere la nostra unicità.

 

 

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