Una cosa è certa. Matteo Salvini ci ha abituato a tante e tali giravolte e cambi di direzione da far impallidire, senza offesa, alcuni dei più abili manovratori della prima repubblica.
Mettendo tra parentesi e stendendo un velo sulla fine del Conte uno, questo periodo con il passaggio dal Conte due al Governo Draghi, si è caratterizzato per un dato apparentemente eclatante e nello stesso tempo dubbioso.
Non parlo solo dell’accettazione da parte della Lega di un Governo a guida Draghi, l’uomo delle “banche e della banca centrale”, ma soprattutto intendo la presunta conversione con abbandono del sovranismo per passare ad una accettazione dell’Europa e dell’europeismo quale orizzonte politico leghista.
In epoca di prima repubblica si parlava e si meditava sulle convergenze parallele e su orizzonti, linee avanzate per spiegare e giustificare l’evoluzione della politica, i cambi di rotta o le inversioni ad u.
Enrico Letta, qualche tempo, fa si è detto contento del passaggio di Salvini dal sovranismo all’europeismo e lo stesso Salvini, piccato dalle felicitazioni del nostro Enrico, ha subito risposto “lasciamo cadere le etichette”.
Premesso questo, forse, val la pena di aggiungere alcuni elementi per capire al meglio il presente labirinto leghista.
Secondo vulgata giornalistica, il Governo Draghi ha trovato il suo via libera come espressione di unità nazionale dopo una chiacchierata di più di due ore, immortalata da foto, in un bar tra il moderato Giorgetti e il sovranista Salvini, discussione che aveva, vociferano i ben informati, visto il Giorgetti da Cazzago convincere il Capitano non solo ad accettare Draghi, ma anche a condividere la svolta europeista e il conseguente abbandono della “ridotta sovranista” mollando il gruppo dei destri europei contrari alla von der Leyen per avviarsi in un percorso di avvicinamento al gruppo dei Popolari europei.
Sempre secondo i ben informati il ragionamento di Giorgetti è molto semplice. La Lega deve uscire dall’isolamento in cui Salvini l’ha condotta. I ceti produttivi del nord non possono accettare di essere tagliati fuori da un governo che gestirà miliardi di euro e in Europa ci si sta su posizioni moderate e non estremiste e vicine ai tedeschi, orizzonte, quest’ultimo, da sempre perseguito da Giorgetti anche ai tempi dell’Umberto imperante.
Insomma, l’entrata nel governo Draghi è sembrato il prevalere della razionalità politica rispetto al pancismo del Papetee.
A distanza di qualche tempo, tuttavia, dobbiamo registrare che il leader della Lega ha ripreso ad essere quello di lotta e di governo, senza essere però ministro e, senza avere come contraltare il debole Conte uno, ma Draghi che è ben altra cosa, ma soprattutto Salvini, a differenza di quanto sperava e gli consigliava Giorgetti, ha ripreso a manovrare in Europa con Orban e i polacchi per creare un vero e proprio gruppo sovranista ora che il demiurgo ungherese è stato, di fatto, cacciato dal gruppo dei popolari europei.
Dunque, apparentemente, perchè ormai siamo abituati alle svolte disinvolte di Salvini, apparentemente la linea Giorgetti sembra sconfitta ed abbandonata alla faccia dei ceti produttivi del nord e alle loro preoccupazioni. Un quadro simile però non può non produrre anche effetti a livello regionale e locale soprattutto in vista delle elezioni amministrative di ottobre.
La caduta nei sondaggi della Lega, passata dal 34% delle europee al possibile, attuale 22%, ha di fatto indebolito, insieme ad altri fattori, la percezione dell’invincibilità del capo, delle sue truppe e del suo essere leader.
La Regione Lombardia, il fiore all’occhiello del potere leghista, quella che doveva insegnare a vaccinare a tutta l’Italia ed esportare il suo “perfetto” modello sanitario, è da tempo sul baratro di una crisi di nervi. Il suo Presidente è stato di fatto “commissariato” sulla sanità, non dal Governo nemico, ma dal suo capo Salvini che, in accordo con Berlusconi ha indicato per quel posto colei che sempre voci leghiste indicano come la persona che sarà presentata al posto di Fontana alle prossime elezioni regionali.
A livello locale poi e quindi anche a noi vicino, ormai il centrodestra è sull’orlo di una implosione. È un tutti contro tutti. Busto vede la contestazione della candidatura del sindaco uscente. Gallarate idem e a Varese le voci messe in giro ad arte dallo stesso centrodestra, o meglio, dagli alleati della Lega, parlano, vociferano, suggeriscono il ritiro del candidato Maroni. Insomma, sembra un castello di carta che rischia di crollare a breve.
Forza Italia rivendica da molto un candidato in una delle grandi città al voto a ottobre. E come darle torto. A Gallarate la Lega conferma il suo Cassani, a Busto FdI, a gran voce, vuole il suo Antonelli e a Varese sappiamo come è. Una Lega cittadina commissariata da anni è costretta a rivolgersi ad un big nazionale per troncare e sopire i distinguo interni e le tensioni con gli alleati. Dunque come non poter chiedere una rappresentanza berlusconiana? Ma a Busto la Lega rivendica non Antonelli, ma un leghista duro e puro e a Gallarate, a chi contesta nel centrodestra Cassani, risponde picche. E a Varese, appunto, si alimentano ad arte le voci che ad oggi sono stoppate con continue conferme e smentite, ma che danno il senso, al di là dei problemi personali di Maroni che vanno rispettati da tutti, di un timore e cioè che l’apertura di una discussione sul candidato del centrodestra nel Capoluogo aprirebbe un vaso di Pandora o un vespaio, a secondo di chi lo giudica, non facilmente riconducibile a soluzione.
Insomma, il labirinto salviniano assomiglia sempre più ad una realtà a domino, ingarbugliata, di difficile soluzione soprattutto se si è abituati al tasso politico del Papeete.
Roberto Molinari, Direzione Provinciale PD Varese
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