La Rete Due della Radio della Svizzera Italiana ha recentemente reso omaggio a Charles Baudelaire con un bel radiodramma, definito film per le orecchie. Al di là del bene e del male, il titolo scelto, rimanda ad un’opera di Nietzsche. In modo suggestivo e appropriato sintetizza come entrambi, il filosofo e il poeta francese, abbiano rappresentato uno spartiacque nella cultura europea. O meglio hanno gettato uno sguardo impietoso sulla condizione umana. Il bicentenario della nascita di Baudelaire, nato il 9 aprile del 1821, come tutti gli anniversari è, o dovrebbe essere, non solo occasione di omaggi ma stimolo ad una rinnovata conoscenza.
Se è sempre giusto interrogarsi circa il rapporto tra biografia e opera di un poeta, conoscere la vita di Baudelaire, definito perfino da Benedetto Croce, “poeta di specie rara, o meglio della rara specie dei poeti”, è quasi indispensabile. Anzi un affascinante, anche se difficile, viaggio nei segreti di una vita tormentata. D’altra parte, proprio Baudelaire ci mise in guardia. Ho – scrisse – più ricordi che se avessi mille anni. Un grosso mobile a cassetti, zeppo di conti, versi, biglietti d’amore, processi, romanze e pesanti ciocche di capelli avvolte in quietanze nasconde meno segreti del mio triste cervello. È legittimo rovistare nei cassetti o nei segreti altrui? Sì, solo se mossi dal tentativo di comprensione, e senza l’odiosa critica moralistica, secondo le parole di Croce. In fondo conoscere la sua vita è un modo di far vivere alcuni suoi versi: tuffarci in fondo all’abisso (inferno o cielo, che importa?), toccare il fondo dell’ignoto per trovarvi il nuovo. E ignoto rimane sempre -a pensarci bene- il fascino della genialità.
Per Baudelaire si potrebbero ricordare tutte le definizioni proposte per i geni: genio ribelle, estasi e tormento. Pare racchiuderle tutte nei suoi quarantasei anni. Orfano di padre a soli sei anni, vive in conflitto con il maggiore Auptik, secondo marito di sua madre. In collegio passa da alunno modello, in quanto vincitore di un secondo premio in versificazione latina, a studente più volte ripreso perché ha “modi pieni di bizzarria”. Viene espulso dal collegio, conclude con modesti risultati gli studi. Tenta di iscriversi a giurisprudenza ma dichiara di non sentire vocazione per niente. A vent’anni, dopo aver frequentato una prostituta ebrea, è già ossessionato dai debiti. Viene costretto dalla famiglia ad un viaggio nelle Indie: dieci mesi lontano da Parigi senza raggiungere la meta. Avrà guardato soli infradiciati di quei cieli imbronciati, come quelli evocati nella poesia L’invito al viaggio? Sempre più indebitato, tormentato, ossessionato, innamorato e sconvolto da amori difficili. Scrive, traduce, si fa mandare da Londra le Opere di Edgar Poe. Respira l’aria parigina: quella degli artisti, dei Salons, delle proteste politiche. Frequenta un vecchio edificio parigino dove – come raccontato dall’amico Théophile Gautier – c’è il Club dei mangiatori di hascisc.
Nel suo poema in prosa dedicato proprio all’hascisc parla del gusto dell’infinito e si chiede che cosa sia questa droga, che può dare una misteriosa ebbrezza. Baudelaire trascina il lettore nell’inferno del mistero. Cerca, sempre, con disperata volontà l’amore, invitando ad amare bene, vigorosamente, spavaldamente, orientalmente, ferocemente. E si sentirà sempre come in Res amissa, tradotta con profondità da Giorgio Caproni, Uno dei tanti, anch’io/ Un albero fulminato/ dalla fuga di Dio. Poeta esiliato dalla vita ma ubriaco di vita, che ha assaporato – per ricordare i titoli di alcune sue poesie – il gusto del nulla, la simpatia dell’orrore e l’alchimia del dolore perché – come scrisse – ognuno ha la sua chimera. Lui la visse nel 1856 quando, lasciato dopo quattordici la bella creola Jeanne, pur continuando a provare per lei una intensa passione, cercò una edizione non commerciale per la sua raccolta di poesie, anzi di fiori malsani. Ma l’anno dopo visse lui stesso fino in fondo l’alchimia del dolore.
Dopo la morte del patrigno, intensifica il rapporto con la madre, accusato dai giornali di attentato alla morale religiosa e pubblica, venne processato per I Fiori del male, dove tra l’altro vi è un Inno a Satana. Il libro, condannato dalla moraleggiante e perbenista giustizia borghese, uscirà con pagine bianche al posto dei versi ritenuti immorali. E Baudelaire disse che non si poteva giudicare un libro per alcune poesie ma doveva essere letto e conosciuto nel suo insieme. E aveva ragione. In fondo continuiamo a commettere lo stesso errore e a conoscerlo troppo poco. Sono dentro di noi i versi dello Spleen, la malinconia soffocante, partecipiamo all’umiliazione del poeta paragonato all’elegante albatros deriso dai marinai, siamo affascinati dalle musicali e misteriose corrispondenze. Siamo tutti bevitori della dolcezza che incanta e del piacere che uccide, come Baudelaire che osserva nelle strade di Parigi una passante, esile e alta, in lutto, maestà del dolore.
Ma lo conosciamo abbastanza? Certamente fu un genio ribelle, precursore dei poeti maledetti ma soprattutto – come definito in un articolo di qualche anno fa di Avvenire- biblicamente apocalittico. Nella Morte dei Poveri scrisse “la morte è la gloria di Dio…. È il portico che si apre sui Cieli sconosciuti”. Ecco perché a duecento anni dalla sua nascita dobbiamo anche pensare a quando, in una Parigi deserta per il caldo, soltanto una sessantina di persone assistettero al suo funerale. E lo dobbiamo fare perché da allora sembra ricordarci che nella vita Stupidità e peccato, Errore e lesina/ci assediano la mente… Sono i versi del componimento Al lettore con cui si aprono I fiori del male. E i lettori siamo noi con tutti i nostri errori.
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