Perché oggi nel mondo occidentale viene meno la fede cristiana? Perché nelle famiglie non avviene più la trasmissione della fede, come nelle generazioni passate? Perché per molte persone essere cristiani significa limitarsi a osservare il precetto festivo? Perché è in atto un calo impressionante delle vocazioni religiose, sia maschili che femminili? Perché nelle famiglie cristiane non si prega più? Perché intere generazioni, specie di donne, tra i 18 e 45 anni non partecipano più alla vita della chiesa? Perché i giovani sono sempre più lontani dalla vita della chiesa? Perché persone che si riconoscono cristiane si dimostrano insensibili alle grandi migrazioni del nostro tempo: anzi sono fortemente ostili alle masse che fuggono da territori di guerra e della fame? Perché pure nel nostro paese di tradizioni cristiane esistono larghe sacche di povertà, ignorate da una maggioranza che vive in condizioni di benessere? E le domande potrebbero continuare.
Tutti questi fenomeni sono andati affermandosi e crescendo nel secondo dopo-guerra quando si è verificato e si è sviluppato il cosidetto “miracolo economico” e la popolazione è arrivata a livelli di benessere materiale e di consumismo, mai conosciuti nei secoli precedenti. È facile e doveroso segnalare un legame forte e causale tra questo clima di benessere economico e il venir meno della fede. È in atto una attrazione forte verso il demone di questo mondo, il denaro, e l’allontanamento dal Dio del Vangelo. Non mancano analisi approfondite a livello sociale e teologico su questo fenomeno ad opera di esperti. Ma anche l’uomo della strada riflette e cerca di dire la sua.
Negli Atti degli Apostoli la chiesa primitiva presenta una realtà affascinante: “I credenti avevano un cuor solo e un’anima sola…nessuno tra loro era bisognoso…vendevano campi e case e deponevano il ricavato ai piedi degli Apostoli e veniva distribuito a ciascuno secondo il suo bisogno” (Atti 4,32-35). Il criterio era questo: si impegnavano in scelte di distacco dai beni e di povertà per favorire una maggior fraternità e condivisione nella comunità.
Al Concilio Vaticano II (1962-1965) il tema della povertà evangelica era significativamente presente. Al termine del Concilio si è verificato un gesto profetico:” Il Patto delle Catacombe”, firmato da una quarantina di Vescovi, al quale più tardi molti altri hanno aderito. Essi si impegnavano a portare avanti “una vita di povertà”, “un Chiesa serva e povera” come aveva suggerito Papa Giovanni XXIII;
In anni recenti ricordiamo una conferenza sulla povertà del Vescovo di Torino Michele Pellegrino (1971). Diceva: “Se la Chiesa è veramente povera in spirito eliminerà le strutture che comportano necessariamente la ricchezza e utilizzerà le altre nel modo conforme alle esigenze della povertà”. Nella nostra Diocesi il Vescovo C.M. Martini scriveva: “In Gesù, povero per scelta, la Chiesa povera e amica dei poveri” (Lettera presentazione del Sinodo 47 -1995). Ai nostri giorni Papa Francesco con insistenza: “Quanto vorrei una Chiesa povera e per i poveri”. Questi autorevoli interventi invitano a chiederci se siano stati accolti dalle comunità cristiane, dalle parrocchie, dai preti, dalle famiglie cristiane.
Il legame tra annuncio del Regno di Dio e vita povera è una costante nel Vangelo. Quando Gesù chiama i pescatori della Galilea, questi “lasciarono tutto e lo seguirono” (Mt. 4,20). Gesù invia i Dodici ad annunciare il Regno di Dio con queste parole: “Non portate nulla per il viaggio, né bastone, né sacca, né pane, né denaro” (Lc. 9,3). La vita stessa di Gesù è fatta da gesti radicali: sceglie di nascere in una grotta e di morire su una croce. È facile quindi ritenere che l’annuncio del Vangelo deve essere accompagnato da uno stile di vita semplice e povera, che riguarda le persone e che mette a confronto con il Vangelo tutte le iniziative pastorale e anche le strutture.
Il flagello terribile del coronavirus, che sta colpendo in questi anni la umanità intera con le conseguenze drammatiche che porta con sé a vari livelli, non è un segno dei tempi che invita le comunità ecclesiali e tutti i cristiani a ripensare con coraggio e in una visione profetica la loro presenza nella vita del nostro tempo? L’uomo della strada non ha competenze per suggerire progetti e programmi pastorali adeguati; ma può ugualmente porre una domanda: perché non incominciare a pensarci?
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