“Si smaglia un punto -/ed il tessuto più non tiene, /s’allarga il vuoto come pozza d’acqua /di presenze deserta / risucchiate nella fuga della trama. /Si smaglia un punto – /ed il tessuto più non tiene, /che ti avvolse nel tempo e ti sostenne: /come piaga scoperta all’improvviso/ è il vuoto che non più, mai più/ si colma del paziente telaio”.
Questo scrivevo qualche anno fa, volendo riferirmi a improvvise sventure individuali. Ma ora, a una rilettura, quelle parole mi paiono rispecchiare la situazione sociale che da un anno stiamo vivendo.
La società, e quindi i rapporti umani che la intessono, ha allargato le sue maglie tanto fortemente da fare aumentare le solitudini e crearne di nuove.
L’uomo non può vivere solo, a meno che non ne faccia scelta personale, in senso sociale intendo. Non ha in sé tutto quanto gli serve per realizzarsi compiutamente. Ha bisogno di relazionarsi con i propri simili, di condividere parole, opinioni, cultura, luoghi di incontro o anche di scontro, insomma necessita di una grandissima quantità di luoghi e rapporti, per dirsi veramente un essere umano.
Da tempo abbiamo constatato che ai giorni nostri tanto sono aumentati benessere e tecnologia quanto sono cresciute le solitudini e le depressioni. La società, lo sappiamo, è profondamente mutata, a cominciare dallo sgretolarsi della famiglia tradizionale, nella cui ampiezza potevano risolversi crisi personali e in cui per lo più trovavi aiuto e conforto.
È chiaro che non si deve sottovalutare il valore del progresso, né alcuni mutamenti sono stati negativi, anzi, varie ingiustizie sono state rimosse; ma se di un prezzo dobbiamo parlare, io dico che l’uomo, in senso lato, è oggi più solo che decenni fa.
E a sconvolgere il tessuto che comunque lo teneva in piedi, è arrivata, flagello mondiale, la pandemia.
Essa è il punto che si è smagliato e via via ha disfatto i rapporti, raffreddato le amicizie, azzerato i momenti di incontro e confronto, ha chiuso il mondo nel perimetro della nostra stanza, corredati di ogni tipo di aggeggio tecnologico, certamente, ma soli, spaventosamente soli.
Certo, i rapporti più profondi e saldi sono rimasti ma, mancando le occasioni di incontro anche le telefonate, il commento di quanto si è vissuto insieme, sono diventati meno frequenti o inesistenti. Delle persone, nei periodi di lockdown, si è perduta la fisicità: quale sguardo ha in questo momento colui con cui sto chattando? E quale espressione del viso conferma o contraddice le sue parole?
Si può obiettare: la pandemia ci ha privato del corpo degli altri, non dell’anima. Ma anima e corpo sono talmente connesse che una sola delle due non basta a mostrare un uomo.
Così pian piano le maglie del tessuto sociale si allentano, “il tessuto più non tiene”.
Più di quanto già non avveniva, in questo anno ci siamo chiusi nel nostro “privato”, né si poteva fare diversamente senza correre rischio di contagio. E adesso si sostiene che alla fine di tutto saremo migliori, avremo imparato una lezione che cambierà in meglio ogni struttura, dall’economia all’industria ai rapporti mondiali eccetera eccetera….
Non so. Qualcuno, duemila anni fa, venne e poi morì con lo stesso scopo. Ma se non lo ha cambiato Lui il mondo, potrà farlo una pandemia? Forse che dopo guerre, terremoti, pestilenze nel corso della storia, passato il pericolo l’uomo ha cessato di essere “lupus” per il suo simile?
Pensavo ultimamente allo stupore che dovette provare l’uomo primitivo, guardando la luna: dovremmo recuperare lo stesso sguardo puro dell’infanzia dell’umanità.
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