Chissà se gli autisti delle ambulanze che sfrecciano numerose in questo periodo verso il Pronto Soccorso cittadino hanno modo, tempo e voglia, di ammirare il murale dipinto da Andrea Ravo Mattoni per l’ospedale della città di Varese.
Peccato che non si trovi un cartello che spieghi ai passanti, che ho notato sostare incuriositi davanti al murale, la provenienza della riproduzione che campeggia sulle due pareti esterne della cabina di raffreddamento dell’edifico. Sarebbe utile qualche spiegazione per chi voglia leggere l’opera grafica e per chi cerchi informazioni sul significato di questo particolare dono giunto in piena pandemia.
Il quadro scelto da Ravo si trova al Museo del Louvre di Parigi. È del francese Georges de La Tour, un influente pittore del Seicento che mette in scena il momento in cui Sant’Irene si cimenta nell’estrarre una freccia dalla gamba di San Sebastiano.
Non ci sono dubbi sul messaggio: siamo nel luogo dove “prendersi cura” della sofferenza, come medici e infermieri fanno da un anno a questa parte all’interno della struttura sanitaria, a fronte di un preoccupante crescendo di casi.
Prendersi cura dell’altro è un compito che riguarda tutti.
Perché la cura si avvale anche delle parole, degli sguardi, dei piccoli gesti di ognuno.
Nel murale c’è Irene curva sulle ferite di Sebastiano; c’è Lucina, la serva, che regge la lampada che proietta luce sia sulle mani della curatrice sia sulla gamba ferita del giovane.
La luce rompe il buio della notte caravaggesca offrendosi come simbolo della possibile guarigione.
La soccorritrice è Irene, donna il cui nome si lega strettamente al suo stesso significato: pace.
La giovane, una cristiana della Roma del II secolo, si è recata con Lucina a recuperare il corpo di Sebastiano, valente soldato convertito al cristianesimo e a causa di questa fede condannato a morte, per dargli sepoltura.
I soldati che lo hanno creduto morto lo hanno abbandonato sul luogo della tortura perché diventi pasto per i cani selvatici.
Ma Sebastiano non è morto.
Viene trasportato nella casa di Irene sul Palatino e qui curato amorevolmente.
Consigliato di lasciare Roma, sceglie invece di rimanervi per testimoniare la propria fede al cospetto dell’imperatore, pagando con un nuovo martirio il coraggio mostrato.
Il murale descrive le prime cure, il momento del soccorso vero e proprio.
Nel buio della notte, metafora delle tenebre del mondo, una luce rischiara il volto della salvatrice.
Il ferito è dolente ma partecipe: il braccio che tiene piegato non esprime abbandono al dolore bensì sostegno all’opera della soccorritrice.
La giovane prende la freccia con un gesto delicato, sta attenta a procurare il minor dolore possibile, pur consapevole che la sofferenza non potrà essere evitata del tutto.
Tiene le labbra chiuse ma non in tensione mentre tutto il suo corpo trasmette concentrazione.
La cura è questo: impegno a soccorrere, sostenere, a svolgere con fermezza, ma sempre con grazia, il compito che ci è chiesto di portare a termine.
Il murale racconta della necessità che alla guarigione collabori ognuno: serve chi faccia luce tenendo sollevata la lampada e serve chi intervenga sul malato trasmettendogli sicurezza, fiducia, competenza e fiducia nella guarigione.
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