Per molti romani è diventato un rito. Parliamo della vignetta di Federico Palmaroli che ogni mattina, con lo pseudonimo di “Le più belle frasi di Osho”, pubblica sulle pagine del quotidiano “Il Tempo”. Un fenomeno da 400.000 follower su Twitter.
La struttura è sempre la stessa: una fotografia scelta tra le centinaia della giornata precedente, commentata con una frase in romanesco che sembra messa in bocca al soggetto della istantanea. Come nei fotoromanzi di Grand Hotel. E così sotto un sorridente Mattarella che saluta Draghi al termine dell’incontro Bce dell’Ottobre 2019 si legge: “Te posso chiama’ se me serve ‘n Premier ar volo?” (profetico). Una ricercatrice cinese dei laboratori di Wuhan viene immortalata con la scritta: ”Qualcuno ha visto il virus che stava qua?”. Una Virginia Raggi sorridente che commenta la sua ricandidatura: “I romani hanno insistito così tanto… come facevo a dije de no?” (drammatico). Per finire con un Giuseppe Conte, colto irritato durante una conferenza stampa: “Vedi de fa poco ‘o spiritoso”. (Diventata la copertina del libro che raccoglie le sue vignette pubblicate dal luglio 2019 all’Ottobre 2020)
Federico Palmaroli ha 48 anni. Di formazione umanistica ha maturato sin dall’adolescenza una grande passione per la tradizione popolare romana. “La maggior parte delle battute che scrivo – racconta – me le ha insegnate mia mamma. Oppure le ho ascoltate su un mezzo pubblico o al bar”. “L’autobus – prosegue il vignettista – è un serbatoio continuo di espressioni, lamentele, frasi circostanziate che si ripetono sempre nella stessa forma. Ho esaltato luoghi comuni che si tramandano di generazione in generazione e rimangono immutati nel tempo. Sono cresciuto con i film di Alberto Sordi e Carlo Verdone, questo sicuramente mi ha aiutato a trasformare i dialoghi in battute. Sono patrimoni culturali della nostra città”.
In effetti il punto di forza del suo successo sta proprio nel cogliere la potenza della freddura popolare romana. Caratteristica che colpisce ancora a distanza di anni, chi, come me, viene dal Nord.
Ricordo uno dei primi giorni sbarcato impaurito nella capitale. Un bar, giornata fredda e incerta. Di fianco due giovani discutevano animatamente su come raggiungere un amico dall’altra parte della città. Al rifiuto del primo di muoversi in moto per via della possibile pioggia incombente, arriva la risposta fulminante del secondo: “Ma che paura c’hai? Sei biodegradabile?”. Semplice, ironica, tagliente.
Così negli anni ho preso l’abitudine di annotarmi alcune battute popolari ascoltate per strada o mentre prendo un caffè: “Sei così magro che er pigiama tuo c’ha na striscia sola” (commento sulla stazza fisica di una persona). “Ma che c’hai ar posto der core, na majolica?” (dicesi di persona poco empatica). “C’hai ‘na nasca tarmente grossa che se dici de sì a tavola affetti er pane” (commento sulle dimensioni di un naso).
Da dove nasce questa ironia che sembra scaturire quasi per caso? Enrico Vanzina, figlio di Steno, regista e scrittore ha una spiegazione intrigante: “Roma è come quelle savane africane dove c’è lo stagno e intorno tutti gli animali che convivono. C’è l’elefante, la giraffa, l’ippopotamo. Roma è così: più bella delle altre città. Per indolenza, per clima, per ‘culo’, non è mai arrivato un architetto a dire: buttate tutto giù che ricostruiamo da un’altra parte”. Questa democrazia storica fa sì che tu possa incontrare girando in città, il basso e l’alto, la politica e la borgata, il Vaticano e l’immigrato, il disoccupato ed il magistrato.
A questo va aggiunto il tipico disincanto con cui il popolano vive l’attraversare degli anni. Abituato ad averne viste di tutti colori accosta la cronaca con un ironico distacco che spesso però scivola nel cinismo. Così ci piace pensare in questa mattina di Pasqua a come un romano potrebbe accostarsi al sepolcro vuoto del Cristo. Senza troppi ragionamenti si lascerebbe scappare un “Anvedi!” e proseguirebbe lungo la sua strada.
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