C’era una volta… già non tanti anni fa c’erano le cosiddette settimane della cultura. Dal 1998 al 2012 per circa dieci giorni era un fiorire di iniziative: musei statali gratuiti, concerti, biblioteche aperte. Se è buona regola non essere retoricamente nostalgici del passato, anche prossimo, è, però, sempre buona cosa credere alle favole, o meglio alla loro forza creativa. E la settimana dal 21 al 28 marzo è stata dal punto di vista culturale quasi una bella favola, soprattutto stimolo all’immaginazione conoscitiva.
Domenica 21 marzo, giornata mondiale della poesia, il primo vero Dantedì, il 25, ricco di proposte che sono entrate, con l’impeto di un vento primaverile, nelle nostre case: dalle parole di omaggio di papa Francesco per il poeta della speranza al sempre pirotecnico Benigni, alle letture collettive di adulti o di studenti, per rendere il sommo poeta meno indigesto, come ha detto Pupi Avati. Ma, al contrario delle favole, la settimana della fioritura delle coincidenze culturali non ha avuto quello che siamo soliti pensare come lieto fine. Sabato 27 era la giornata simbolica del teatro, celebrata a Parigi per la prima volta nel 1962 in occasione della inaugurazione del teatro delle Nazioni.
Se conosciamo tutti i limiti delle giornate “dedicate a qualcosa”, è, comunque, doveroso tenere desta l’attenzione al grande valore culturale del teatro. E questo soprattutto dopo “l’anno orribile degli spettacoli congelati”, secondo un titolo de La Stampa. Questa storia da raccontare incomincia proprio, come nelle favole, dal conoscere bene non solo i protagonisti ma anche gli antagonisti. Il Covid ha paralizzato il settore, facendo emergere e amplificando – come per altri ambiti-, le difficoltà e i problemi. Ma il Covid è stato ed è l’unico antagonista? Certamente il più feroce e il più evidente, ma non l’unico se ripercorriamo contro chi e che cosa negli anni ha dovuto combattere il teatro, inteso come grande magia di spettacolo, di attenzione e di tensione dello spettatore al mondo rappresentato sul palcoscenico. Certo il teatro non è solo questo: è il testo teatrale da leggere, è lo spazio, o meglio gli spazi, è la ricerca di forme comunicative diverse: il teatro “povero”, il teatro dell’urlo, il teatro itinerante etc. etc. È il teatro da vedere nella fisicità degli sguardi e da vivere nella relazione, è la sua forza pedagogica (ricordiamoci di come la didattica a distanza non ha sostituito nelle scuole il valore educativo dei vari progetti laboratoriali di teatro, percorsi individuali in autentici lavori di gruppo).
Il regista Gabriele Vacis, già l’anno scorso, ricordava che il teatro, vittima sacrificale del Covid, è la più sacra e antica forma di “assembramento” e che i teatri sono luoghi della meditazione civile. Se sembra ovvio (ma mai inutile) tessere gli elogi per tutto quanto il teatro rappresenta, è giusto ripensare ai nemici che ha avuto negli anni: nel 2019, dunque prima del Covid, tagli nei finanziamenti, la concorrenza con il cinema. Si potrebbe rileggere un servizio del gennaio del 2002 di Letture (già, c’era una volta questo bel mensile di informazione culturale) dedicato al teatro, specchio della vita e ai suoi problemi: la ricerca di grandi registi, le alternative alle avanguardie.
Potremmo aggiungere a come nell’orribile 2020 molti si sono interrogati non solo delle sale vuote ma anche delle varie modalità di far vedere il teatro attraverso le piattaforme digitali che tutti siamo stati costretti ad imparare ad usare. Vogliamo davvero pensare – come nelle favole – che il teatro, simile all’Araba Fenice, possa e debba rinascere. E leggere le giuste proteste da parte del variegato mondo dello spettacolo, che hanno attraversato l’Italia sabato 27 marzo, fa sperare. Basti leggere un titolo di Repubblica: il teatro protesta per il futuro.
La direttrice artistica del teatro milanese, Teatro di Ringhiera, ha affermato che il teatro vivrà sempre e che ripartirà da Milano. Ci uniamo all’augurio, rendendo attuali le parole programmatiche scritte nel 1947 per il Piccolo di Milano.
Si legge: Il teatro resta quel che è stato nelle intenzioni profonde dei suoi creatori: il luogo dove la comunità, adunandosi liberamente a contemplare e a rivivere, si rivela sé stessa.
È il caso di ricordare che tra i firmatari vi era Mario Apollonio, grande studioso di teatro e dantista? Se siamo convinti che dire che il futuro ha un cuore antico, non è male pensare che a cinquant’anni dalla morte di Apollonio, avvenuta nel giugno del 1971 a Galliate Lombardo, anche il teatro varesino possa ripartire da quanto lui fece?
È banale dire che non c’è solo la giornata del teatro ma c’è il teatro? Tutti recitiamo, come ci disse Erasmo da Rotterdam e tutto il mondo è un palcoscenico, secondo quanto scrisse Shakespeare. Per inciso vale anche la pena ricordare che il bardo inglese visse la sua quarantena per la peste che colpì Londra. E vale anche la pena ricordare che qualche anno fa uno spettacolo, intitolato proprio come il celebre verso shakespeariano e dedicato alle sette possibili età umane, terminava con la rappresentazione della settima età. Peccato che fosse come una seconda infanzia, fatta di oblio, senza denti, senza vista, senza gusto e senza niente. Forse senza teatro rischiamo questo.
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