Aprile: questo era il mese in cui nelle famiglie si cominciavano a fare i conti per decidere se iscrivere i figli alle colonie estive. Era un rito del periodo pasquale, per non correre il rischio di restare esclusi dagli elenchi.
E ben poche cose, come le esperienze della colonia estiva da cui sono passati migliaia di bambini, hanno rappresentato un’epoca e hanno permesso di leggere i cambiamenti della società. La prima esperienza la si fa risalire al 1822, per merito dell’Ospedale di Lucca, che aveva realizzato una “Colonia per l’estate dei bambini di strada”. Il successo di questa iniziativa benefica fu tale soprattutto in Toscana e in Emilia che attorno al 1850 le “colonie estive per poveri” diventarono oltre cinquanta. L’attenzione in quegli anni è rivolta soprattutto alla cura della tubercolosi, tanto è vero che molte colonie dell’epoca si chiamavano appunto “colonie antitubercolari” per sottolineare il ruolo primario di cura.
Ma è con il fascismo che si ha una notevole attenzione a questi progetti destinati alle famiglie meno agiate. Famosa e ricca di significati simbolici era stata a Gaeta la grande “Colonia Alessandro Italico Mussolini”, intitolata al nipote del duce morto ventenne e distrutta nel periodo bellico dai tedeschi che temevano proprio a Gaeta uno sbarco alleato. In questo periodo le iniziative si moltiplicano: nel 1927 i bambini ospitati erano 54 mila. Solo dieci anni dopo diventeranno 772 mila distribuiti in 4357 colonie, soprattutto in Toscana e Romagna.
Il regime anche in questo settore mostra particolare cura alla architettura: i progetti vengono affidati ai grandi progettisti dell’epoca, perché ne facciano uno strumento di propaganda, grazie all’esaltazione della modernità del fascismo e all’attenzione alle esigenze delle famiglie. Troviamo così opere di Clemente Busiri Vici a Milano Marittima, a esempio o la imponente “Colonia Varese”. Progettata da Mario Loreti nel 1937 fu costruita per conto della Federazione dei Fasci della Provincia di Varese e intitolata a Costanzo Ciano. Non si badò a spese e a grandezza: 61 mila metri quadri di cui 4500 coperti, studiata per ospitare 800 bambini, regolarmente separati tra maschi e femmine, dotata di ogni servizio costruito con la miglior cura possibile, dalla chiesa ai refettori, docce, infermeria, locali di gioco, cucine modernissime. Esisteva perfino un caseggiato adibito ad isolamento qualora ci fossero bambini colpiti da malattie infettive durante il periodo del soggiorno. Dopo essere diventata ospedale e carcere gestito dai tedeschi in periodo bellico, il declino della Colona Varese divenne rapido. Da orgoglio architettonico e organizzativo a rudere il passo era stato breve: diventata negli anni proprietà della Regione Emilia e Romagna (o oggi di competenza dei Beni Culturali) subì negli anni crolli e vandalismi.
Quale sarà il suo destino? La risposta non è semplice: basti pensare che nella sola Romagna esistono ancora 250 colonie estive abbandonate, per un totale di un milione e mezzo di metri quadrati di territorio. Qualche riconversione negli anni è andata a buon fine: la grande colonia di Cattolica oggi è un parco tematico marino; la Colonia Monopòli resiste nel suo ruolo originale per i dipendenti dell’azienda di stato che le dà il nome; la Colonia Novarese di Miramare di Rimini è stata trasformata in un Centro Benessere. Qualcosa negli anni si è mosso ma i costi per mettere a reddito questi ruderi sono spesso insostenibili e non c’è di certo la fila degli acquirenti desiderosi di investire cifre importanti.
Ma torniamo alla storia. Gli anni del fascismo videro l’impegno anche di molte grandi aziende che crearono colonie estive per i figli dei propri dipendenti, anche in questi casi affidando il progetto ad architetti di prestigio. In questi anni l’attenzione era rivolta prevalentemente ai bambini più piccoli, di età prescolare e delle scuole elementari, affidati spesso a suore e alle mitiche figure femminili in grembiule bianco, “le vigilatrici”, ragazze delle scuole superiori che univano un piccolo stipendio ad un barlume di vacanza al mare che in molti casi difficilmente avrebbero potuto permettersi. Era diventato secondario l’aspetto della cura medica e si era previlegiato il valore sociale.
Nel secondo dopoguerra avviene il cambiamento che probabilmente i settantenni di oggi ricordano in modo ancora preciso. Sono gli anni in cui le colonie perdono la loro caratteristica fondante di sostegno alle famiglie povere per trasformarsi in proposta alla portata di tutti, con differenziazione di retta secondo il reddito. Le associazioni cattoliche e gli oratori sono in prima linea. Molti varesini ricorderanno le colonie estive per studenti delle scuole medie organizzate dai Salesiani a Bormio o a Prè Saint Didier, dove veniva presa in affitto per il periodo estivo la scuola elementare del paese, proseguendo così anche durante le vacanze, il progetto educativo salesiano. E la notevole presenza di villeggianti varesini in alta Valtellina è ancora oggi spesso un retaggio di queste iniziative estive salesiane.
Il segno del sostanziale cambiamento dei tempi avviene però negli anni settanta. Il miglioramento economico medio delle famiglie provoca la crisi delle colonie. Le famiglie possono spesso permettersi ora a cifre accessibili vacanze per tutta la famiglia in locali in affitto o in pensioni sulla Riviera ligure o romagnola o nelle località montane dell’alta Lombardia e del Piemonte. Era nato così il turismo “popolare”.
Era cambiato tutto. A volte accorgendocene in ritardo.
Ma sfogliando gli archivi, resta nella “cultura della colonia” un mondo che non è ancora stato analizzato con la dovuta attenzione. Basti qualche esempio di casa nostra. Oltre al già citato esempio della “Colonia Varese” di Milano Marittima, scopriamo anche sul nostro territorio numerosi esempi di colonie estive che hanno seguito l’itinerario di tutto questo settore, dallo splendore architettonico e organizzativo all’abbandono degradato.
Qualche esempio scelto a caso, a portata di mano: la Colonia Maino a Cugliate Fabiasco, che risale alla fine della prima guerra mondiale grazie ai Maino industriali gallaratesi e che poteva ospitare fino a 150 bambini. Una curiosità: secondo il sito internet www.valganna.info (che è ricco di notizie e filmati curiosi sui paesi della Valganna e che merita attenzione), all’interno dell’area della Colonia Maino in una casetta separata nel 1910 vivevano dei “botanici” tedeschi che si è poi scoperto che erano spie che dalle loro serre e dai loro orti botanici controllavano le comunicazioni sul territorio a scopi militari. Queste spie comunicavano con segnali morse luminosi verso il Canton Ticino e da qui alla Germania. Scoperto il loro vero ruolo all’inizio della prima guerra mondiale vennero fucilati.
Altro esempio: sul Campo dei Fiori, a poche centinaia di metri dalla Pensione Irma, la Colonia Magnaghi, bell’esempio di Liberty (oggi in degrado).L’edificio venne costruito dalla Società Grandi Alberghi per essere affittato a villeggianti e poi venduto a Siro Magnaghi che lo trasformò in colonia estiva. La sua storia meriterebbe un racconto a sé, nelle sue tappe da colonia a “prigione aperta”, a progetto per giovani con difficoltà.
Ma l’esempio più interessante è forse rappresentato dal Villaggio Alpino del Touring Club Italiano a Boarezzo. Nato nel 1919 ad opera del Touring come “colonia montana per fanciulli gracili e poveri” aveva rappresentato per decenni un esempio sia dal punto organizzativo e urbanistico. L’esperienza fu interessante e di grande successo tanto che nel 1952 il Touring Club, dalle colonne della sua rivista “Le vie d’Italia”, lanciò una sottoscrizione tra i soci per l’ampliamento della struttura, con l’innalzamento di un piano, la creazione di una palestra e di una sala cinematografica. Eppure di lì a poco, la fine di questa avventura e il degrado videro il ripetersi di gesti di vandalismo. E oggi lo squallore.
E potremmo continuare con decine di altri esempi.
Pensando alle strutture esistenti in provincia di Varese, questa ricchezza di esperienze dal punto di vista storico, architettonico e sociale potrà forse trovare una sua rivalutazione, non certo con gli scopi iniziali ormai superati dai tempi, quanto come recupero museale o dando libero sfogo a quel fermento di idee che certamente ai professionisti del settore non mancano? È davvero impensabile?
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