Dall’ottobre 1951 al giugno 1953 ho frequentato l’asilo del Collegio Sant’Ambrogio. I miei ricordi di piazza della Repubblica – allora, per tutti, piazza Mercato – sono legati all’orario di entrata e uscita dall’asilo e alla persona cui ero affidato. Di solito provvedeva mio padre, che lavorava in centro e che godeva di un orario flessibile. Se aveva impegni veniva mia madre, e la cosa mi piaceva, perché aveva più tempo per me mentre faceva spese nella piazza o in pieno centro, dove c’erano i negozi per il ceto medio. Dopo sette ore di sottomissione a suore che si erano negate al sorriso, rivedere il volto noto di un genitore era una gioia immensa e una liberazione.
Il triangolo ricavato tra le vie Dazio Vecchio, Bizzozero e Ravasi era un viaggio di scoperta in un frammento di mondo in pochi metri quadri. I miei genitori e fratelli soddisfacevano volentieri la mia già insaziabile curiosità. Per un bambino la piazza e gli immediati dintorni erano un’avventura dello sguardo, e talora anche del suono, del gusto e dell’olfatto. Per questo i miei ricordi sono dolci.
La scena che mi si schiudeva da bambino cambiava all’inizio e alla fine di quelle ore noiosissime al chiuso, dominate da aste, collage, pastelli, preghierine e camminate in cortile in fila per due.
Al mattino pochi cavalli da tiro, spesso chiamati affettuosamente Balìn, attendevano pazienti la fine dei piccoli affari restando appartati sotto il muraglione in pietra del Collegio con le briglie legate alle stanghe e la musetta per la biada. Poco più oltre le merci venivano disposte in due settori, dedicati rispettivamente a pollame e uova e a frutta e verdura. Erano vendute direttamente dai produttori a chilometro zero, lungo il grande arco disegnato oggi da viale Europa tra Casbeno bassa, il Gaggianello e la Conca d’Oro. Più in disparte, più ristretto e meno frequentato, era il settore per la compravendita dei vitelli.
Dal Gaggianello al mattino presto arrivava lì a vendere l’Angelina prima di venire a servizio nella mia famiglia per poi tornare subito dopo il pranzo a coltivare l’orto e allevare galline in un grande cascinale non più esistente. Indossava un grembiule nero da vedova che la rendeva inconfondibile ancor più del soprannome, Cavagnoeu, l’inseparabile cesta.
In alcuni giorni della settimana, nel ritaglio tra il lato destro del monumento e il mercato coperto, si aggiungeva un’area dedicata a chincaglierie per arredare i poveri tinelli e le cucine delle periferie operaie e dei circondari rurali. Erano in bella mostra, con tanto di cornici e vetro, dei dipinti di quart’ordine. Mio padre mi raccontava, ma senza che poi ne abbia trovato conferma, che quelle croste venivano chiamate, in conformità ai doppi sensi consueti nei dialetti, i quadri del Piccio: roba da poco, del “cavolo”, benché il nome evocasse il principale pittore locale dell’800, molto amato da Piero Chiara, Giovanni Carnovali detto appunto il Piccio, artista eclettico ricercato per i suoi ritratti e popolare per i paesaggi, le Madonne e le scenette di genere, poi strapazzato da decine di imitatori.
Le bancarelle vere e proprie si estendevano in doppia o tripla fila, ordinate in parallelo al filare di lecci (o ippocastani?) che ornavano i quattro lati della piazza. Vi si trovava di tutto, alimenti freschi e conserve, salumi e formaggi, frutta e verdura comprate dai grossisti, il pane e gli abeti prima del Natale. Gli ambulanti conoscevano tutti i clienti e i clienti si conoscevano tra loro.
Al congiungersi di questi due spazi sorgeva il mercato coperto, un edificio spoglio ma arioso e “dal volto umano”. Situato in un grande isolato protetto da una cinta muraria lungo la via Dazio Vecchio, formava un tutt’uno con i vecchi cortili sciaguratamente demoliti fino alla piazzetta del Cinema Impero (a sua volta oggetto di un’improvvida e avida devastazione). Sotto le nude volte del mercato, lungo i due grandi corridoi, si aprivano i vani dei negozi di alimenti freschi. In fondo c’erano i servizi tecnici di allora. Appena fuori, una sorta di gabbiotto ospitava gli orinatoi maschili, squallidi e abbandonati a se stessi. Era un mercato di una piccola città di provincia circondata da un territorio rurale. Il benessere dei secondi anni ’60 era ancora lontano, con la “civilizzazione” che ne sarebbe derivata e i modelli di consumo e di approccio alle merci che si sono succeduti dal dopoguerra ad oggi.
L’area circostante la piazza era un esteso comparto del commercio, inclusi bar, ristoranti e tabaccherie, e in misura minore per artigiani e professionisti. Vi erano grandi negozi, come la Tessilomnia in fondo a via Magenta, con stoffe e abiti fatti, il magazzino del grossista specializzato in frutta e verdura, i piccoli spedizionieri, il venditore di legna e carbone, gli elettricisti.
Era un tessuto popolare, facilmente raggiungibile con i treni, gli autobus che provenivano da Azzate, Biandronno, Casciago e le linee tramviarie sopravvissute alla gomma. Uno spazio animato, vivo, dal mattino al tardo pomeriggio che in pochi minuti si trasformava in un mortorio. Lentamente la modernità e il piccone risanatore puntualmente esaltato dalla Prealpina avrebbero deformato e ridotto quella vitalità, fino allo spopolamento finale con le demolizioni perpetrate dalle giunte tangentopolate prima e da quella protoleghista di Fassa che le portò a termine senza reali discontinuità.
La piazza fino alla metà degli anni ’50 aveva conservato il suo assetto equilibrato. Poi sono arrivati i grandi insulsi condomini, il quadrilatero tra le vie Manzoni, Mazzini, Foscolo e Magatti, con i suoi deliranti passages, e infine le Corti e il vuoto pneumatico del teatro Apollonio, due edifici che hanno trasformato l’insulso anonimato di Piazza della Repubblica in un aborto architettonico tra i più brutti d’Italia. Il solo edificio di pregio sopravvissuto è ora insidiato da qualche problema di statica e da una proprietà non interessata a difendere la qualità del manufatto.
Piazza Repubblica era lo spazio civico per eccellenza. Lì si tenevano le manifestazioni politiche, i comizi elettorali, gli atterraggi in elicottero della Madonna Pellegrina. Lì partivano i cortei del 25 Aprile e del Primo Maggio, dove venivo regolarmente portato da mio padre o mio zio. Al contrario del post ’68, erano manifestazioni silenziose, dove si sfilava ordinatamente con i labari, le bandiere e il “vestito buono”. Lì le “autorità civili, militari e religiose” celebravano il 2 Giugno e il 4 Novembre. Lì si sarebbero festeggiati, più avanti, i successi del Varese Calcio e della Ignis. Lì partivano i carri di carnevale. Il monumento di Butti conferiva alla piazza, con la sua scalinata e la sua quinta di cedri himalaiani, un valore simbolico e un senso di sacrale rispetto che i maldestri rifacimenti per il parcheggio hanno del tutto distrutto. A parte quelle occasioni e l’area delle bancarelle, la piazza era un brutto parcheggio in superficie. La domenica, raccolti davanti allo storico Bar Firenze, c’erano i capannelli dei migranti dal Sud. La caserma è sempre stata avulsa ed estranea al quotidiano fluire della vita, come una nave spiaggiata, un colosso di Rodi finito lì per caso. La fuga dell’Insubria verso le Bustecche, infine, ha privato di funzionalità il corpo degli edifici – in gran parte malamente demoliti – che formavano il Collegio.
La permeabilità tra esperienze, provenienze sociali e territoriali e generazioni è andata irrimediabilmente perduta. Ora quello spazio respinge indietro e impoverisce la socialità. Il vuoto e il degrado attrae gruppi sparuti di soggetti deboli, incolpevoli giovani marginali e migranti che si sentono interdetti dagli spazi degli inclusi.
Ci vorrà del tempo per restituire un senso alla piazza e restituirla al piacere della socialità. Il ritorno del mercato è un primo passo, ma non il principale. Il previsto ridisegno dei percorsi entro la piazza sarà completo solo quando l’area oggi occupata dall’Apollonio sarà destinata a un mercato coperto imperniato sui nuovi modelli di consumo che la crisi ambientale, la nuova virtù civile della sobrietà e le forme radicalmente mutate nella distribuzione ci impongono. Intanto partiranno le grandi ricuciture pedonali con piazza Monte Grappa, la Motta, largo Sogno, il futuro Teatro Politeama e il comparto stazioni riformulato. L’Insubria recupererà gradualmente gli edifici di sua pertinenza. Lo svincolo di Largo Flaiano potrà scaricare buona parte del traffico automobilistico su altre direttrici verso la periferia est della città. Resta il problema degli assi viari da sud verso ovest e verso nord. L’attraversamento automobilistico delle città, con i mutamenti nei modi di spostarsi e negli spazi e nei tempi del produrre, è destinato a diminuire. La piazza del passato non risorgerà. Non nutro, come altri autoctoni, la nostalgia passatista di una mitica età dell’oro. Siamo in un’età fecale, e dobbiamo uscirne come possiamo, al meglio di quel che possiamo, muovendo da quel che siamo ora.
Ci vorrà tempo per valutare gli effetti dei cambiamenti progettati. Non bastano i buoni progetti per generare un tessuto sociale, se non si registrano mutamenti nei microcosmi dei comportamenti individuali e nel macrocosmo globale. Avremo una società più equa o continueremo sulla via oligarchica e iniquitaria adottata in quasi tutti i paesi avanzati investiti dalla globalizzazione? Le nostre sorti sono affidate al gramsciano “mondo grande e terribile” su cui non abbiamo potere.
Le amministrazioni future saranno chiamate a demolire le brutture della piazza, a ridurne l’eterogeneità e a riaprire vedute attraenti. Quella in arrivo tra pochi mesi sarà chiamata a cercare valenti architetti e urbanisti e ad operare in continuità con gli ambiziosi progetti avviati dalla giunta in carica, per riportare gradualmente la vita, con scelte opportune e oculate, in un’ampia area del centro cittadino che non può essere solo un comparto commerciale di nuovo tipo. Il pragmatismo senza prospettive è cieco; le prospettive senza pragmatismo sono un corpo tetraplegico.
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