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Parole

MALUMORE? NIENTE AFFATTO

MARGHERITA GIROMINI - 26/03/2021

besArrivano i dati del Rapporto dell’Istat sul benessere equo e sostenibile (Bes) per il 2020.

Apprendiamo – sorpresa! – che è aumentata dal 43,2% del 2019 al 44,5% del 2020 la quota di persone che dichiarano di essere “molto soddisfatte” della propria vita.

I risultati dell’indagine, supportata anche dal World Happiness Report, sono stati diffusi nel corso della Giornata Internazionale della Felicità: il 20 marzo, data che quest’anno ha coinciso con l’anniversario dall’inizio della pandemia.

Impossibile non cogliere che i dati sono in contrasto con le notizie che leggiamo ogni giorno.

Le persone sembrano moderatamente felici? O almeno non infelici come si temeva.

Questo significa che dentro le tante situazioni terribili di questi mesi qualche momento di felicità, seppure imperfetto, c’è stato.

Dunque questo sarebbe lo spazio per la celebrazione della felicità.

E io che mi prefiguravo di trovare uno stato d’animo collettivo somigliante al mio: una continua oscillazione tra un persistente abbattimento, mescolato a una sorta di risentimento per il prolungarsi della situazione, e qualche raro barlume di serenità.

Non avrei certo osato parlare di felicità.

Anzi, per dire la verità, sento di appartenere alla percentuale di coloro che, consultati dagli intervistatori, hanno risposto di ritenersi “poco soddisfatti”.

Guardando bene, non mancano i dati oggettivi che autorizzano piuttosto un certo malumore del paese: la povertà assoluta in crescita dal 7,7% al 9,4%, l’aspettativa di vita in calo di un anno come media nazionale, la povertà assoluta in crescita, l’economia e il lavoro paralizzati, la devastazione causata dai 100.000 e più morti.

Aggiungo i confinamenti, ormai tre, le restrizioni al libero movimento, la chiusura delle scuole, la riduzione drastica della socialità, la riduzione degli incontri, un contagio che ha colpito persone care, vicine e lontane; la percezione di essere in balia del virus e il presentimento, sia pure irrazionale, che questo momento potrebbe non finire mai.

Ecco perché mi stupisce che nei primi sei mesi dell’anno 2020, perciò nell’arco di tempo investito in pieno dalla pandemia, i dati sulla soddisfazione di vita rilevati registrino un aumento dell’indice di benessere 2020.

Un autorevole commentatore ha individuato alcune possibili risposte.

Le propongo alla riflessione dei lettori più disponibili di me a credere alla presenza della felicità in questa fase di emergenza sanitaria.

La tragedia della pandemia ha arricchito di senso le nostre vite, riducendo l’impatto negativo prodotto dall’eventuale perdita di benessere economico e dalle difficoltà della gestione del quotidiano.

Perché la felicità non cresce con l’aumento del denaro o dei beni che possiamo consumare e non diminuisce necessariamente quando ci troviamo ad affrontare gravi problemi.

A renderci felici è la capacità di incanalare le energie verso un fine condiviso. Ad esempio il bene comune.

Quale sarebbe la chiave degli sprazzi di felicità dentro la pandemia?

La consapevolezza che lutti e dolori ci hanno portati ad approfondire il significato dell’esistenza; a rivalutare il dono prezioso della vita; ad apprezzare come eccezionale uno stato medio di buona salute.

Il paradosso della felicità ai tempi della pandemia?

Se non vogliamo chiamarla felicità, bisogna ammettere che si tratta di uno stato d’animo che assomiglia molto da vicino al benessere.

Perché dentro a una tragedia si può capire il valore della comunità. Riconoscere un significato forte all’esistenza. Affermare che la vita è preziosa. Accontentarsi di ciò che si ha, anche se è poco.

Per essere soddisfatti della propria vita si accolgano gli attimi di spensieratezza regalati dai momenti in cui non siamo sopraffatti dal pensiero di ciò che accade fuori.

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