In questo ultimo anno e mezzo, da quando abbiamo dovuto fare i conti con la pandemia, molto si è parlato di scuola. Ne hanno parlato politici, sociologi, medici, giornalisti, giocatori professionisti di cricket, sommelier, sensitivi… Tutti, insomma. Talvolta, è stata richiesta persino l’opinione di dirigenti scolastici, insegnanti e studenti. Ma, al di là dei profili professionali di ciascuno, mi pare che tutti, dai più pacati e riflessivi ai più indignati e stizziti, siano giunti alle medesime conclusioni: la cosiddetta Didattica a distanza (i più svelti la chiamano Dad) non solo è inefficace, ma non ha nulla a che vedere con il tradizionale “fare scuola” e “stare a scuola”.
Fin qui, appunto, tutti d’accordo. Mi sembra, però, che da questa constatazione all’invocazione della sbrigativa soluzione, che ci vorrebbe tutti in classe e subito, si salti qualche passaggio. O almeno qualche considerazione supplementare.
Chiarisco subito che da qualche decennio mi cimento caparbiamente nel tentativo di fare l’insegnante e che anche per me la scuola è necessariamente uno spazio fisico, in cui fisicamente le persone devono entrare in relazione. Penso altresì di aver capito che, di solito, le crisi fanno emergere in tutta la loro evidenza le debolezze di un sistema. E che, di fronte all’evidenza di debolezze e criticità (ed il sistema scuola ne ha accumulate molte), ci si aspetterebbe una seria riflessione, seguita dalla messa a punto di opportune strategie, sperimentazioni, ed elaborazione di nuovi modelli.
Purtroppo, ho l’impressione che nel fantastico mondo della scuola (così come nella sanità, nei trasporti e in tutto il resto) ci siamo limitati ad affrontare l’emergenza, come se questa situazione di eccezionalità dovesse cessare nel giro di qualche mese. Una parentesi, che, una volta chiusa, ci avrebbe restituito la routine delle nostre pratiche quotidiane. E così, ci siamo limitati a trasferire il nostro stile educativo nello spazio di comunicazione virtuale del web. In altre parole: facciamo scuola a distanza come se fossimo in presenza, ripetendo sterilmente modalità (abitudini), che forse da molto tempo avrebbero dovuto essere ripensate.
Si è parlato e si parla molto di Dad, dimenticandoci o facendo finta di dimenticare che avremmo dovuto dedicare anche un po’ di tempo a parlare di Didattica digitale integrata. Di Did, come direbbero i più svelti (usare gli acronimi ci fa sentire depositari di un sapere esoterico!). Come recitavano le indicazioni messe a punto dal ministero della Pubblica istruzione e pubblicate il 7 agosto del 2020, ogni istituzione scolastica avrebbe dovuto definire «le modalità di realizzazione della didattica digitale integrata, in un equilibrato bilanciamento tra attività sincrone e asincrone». E nella stessa sede si precisava che la cosiddetta Didattica digitale integrata andava intesa come una «metodologia innovativa di insegnamento-apprendimento», come una «modalità didattica complementare, ad integrazione della tradizionale esperienza di scuola in presenza, nonché in caso di nuovo lockdown».
Ovviamente non sono mancate superbe inarcature di sopracciglio da parte di qualche docente, che, al solo sentir parlare di «metodologia innovativa di insegnamento-apprendimento» ha pensato che un sordido complotto avrebbe voluto impedirgli l’onanistico piacere della tradizionale lezione magistrale su Ludovico Leporeo o su Michele Psello. Di questi personaggi, come già raccontava Domenico Starnone nel suo Ex cattedra (anno 1996), la scuola è piena e lo sarà sempre, se non altro per naturale o cerebrale senescenza.
Non dubito che vi siano realtà scolastiche (e ne conosco qualcuna), in cui si siano tentate le «metodologie innovative» auspicate dal ministero. Ma, in generale, credo sia mancata una riflessione pubblica in tal senso. Ci siamo limitati al consueto rimpianto della bella e vecchia scuola “in presenza”, come se il nostro sistema scolastico fosse perfetto così com’era e com’è. I genitori, di colpo, hanno scoperto il “valore” della scuola, dismettendo per un momento le vesti dei rappresentanti sindacali dei loro figli, e gli insegnanti si sono esibiti nel nostalgico rimpianto di una scuola immaginaria, molto più simile alle pagine del libro Cuore che alla realtà, trascurando, per un momento, di lamentarsi come d’abitudine della presunta pochezza culturale delle nuove generazioni.
Alla fine, credo che tutti stiamo perdendo una grande occasione: quella di poter tornare a discutere di come “fare scuola” e non dove.
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