Tra le opere di Senofonte, ma non scritte da lui, ci è giunto un opuscolo dal titolo Athenaion politeia, una critica serrata e lucida del sistema politico di Atene, la democrazia diretta. La data più probabile a cui riferirlo è il periodo 429-424 a.C.; queste le ragioni dell’attribuzione: la scomparsa di Pericle, figura primaria di dominatore dello Stato nel quadro del personale politico e le caratteristiche della fase iniziale della guerra del Peloponneso sostenuta da Atene che vi compaiono (devastazioni della campagna attica da parte degli Spartani). In merito allo scritto è stata ipotizzata una forma dialogica dal filologo olandese C.G. Cobet, ripresa dall’americano William Forest: ogni opinione è preceduta da una contraria come in un dibattito tra un ateniese e uno spartano, un detrattore della democrazia e un oligarca intelligente, l’autore. Non destituita di fondamento è l’individuazione dell’autore nel sofista antidemocratico Crizia, poi cervello e capo politico dei Trenta Tiranni.
L’obiettivo dell’opera, circolata anonima dal primo momento, non è di descrivere il funzionamento dello Stato, quanto di analizzarlo in vista di una prospettiva operativa, il colpo di Stato. L’introduzione prevalentemente teorica si rivolge contro i fondamenti della democrazia: la smodata licenza degli schiavi, la vessazione degli alleati, la funzione centrale dell’assiduo addestramento degli Ateniesi nell’arte nautica. Si procede con l’ordinamento militare difensivo per terra, offensivo e praticamente imbattibile per mare, quindi con fenomeni quali il commercio, la mescolanza linguistica, l’infida politica estera, la censura esercitata nei confronti del teatro comico (peggio dei democratici sono gli aristocratici che ne accettano il sistema). Formula conclusiva: la democrazia che funziona in Atene è deprecabile. La macchina burocratica è lenta, il sistema giudiziario è corrotto. Per il popolo è naturale confidare anche nelle forze affini presenti nelle altre città. Per abbattere la democrazia infine è inopportuno fare ricorso agli atimoi, privati dei diritti.
Caratteristica dell’autore pare essere quella dell’esule (che si rivolge agli Ateniesi in terza persona, “loro”), avverso ai “ben nati”, amanti per principio dell’eunomia, del buon governo, ma rassegnati nella sua disamina disillusa e lucida: egli è rivolto nella scelta di fare politica ostinatamente per tutta la vita a rientrare vittorioso e vendicativo dall’esilio. La critica della democrazia come sistema oppressivo e deleterio, ma a suo modo perfetto, all’insegna comunque della rottura, lungi da ogni possibile composizione o partecipazione paritetica, porta alla conclusione che la democrazia si riconduce alla violenza e all’intolleranza. La democrazia, individualistica, non esalta il valore del singolo, è il regime di un soggetto politico collettivo, mentre la buona politica realizza il massimo di libertà. “Nei migliori c’è il minimo di sfrenatezza e di ingiustizia e il massimo di inclinazione al bene; nel popolo invece c’è il massimo di ignoranza, di disordine, di cattiveria e così la mancanza di educazione e la rozzezza”.
“Ora può levarsi in assemblea qualunque ceffo, perciò persegue l’utile suo e dei suoi simili. Il popolo non vuole essere schiavo in una città retta dal buon governo, ma essere libero e comandare: del malgoverno non glie ne importa nulla. Proprio da quello che tu chiami malgoverno il popolo trae la sua forza e la sua libertà. Nei tribunali poi non si danno pensiero della giustizia, ma del proprio utile. Se nelle città alleate si rafforzassero i ricchi e la gente per bene, l’impero del popolo di Atene durerebbe pochissimo. Per le città rette da oligarchi è inevitabile rispettare patti e alleanze; se non li rispettano, o qualcuno commette ingiustizia, i nomi dei responsabili sono tra quei pochi che hanno sottoscritto l’impegno. Nel caso invece degli impegni sottoscritti da un regime democratico, è sempre possibile al popolo addebitarne la responsabilità a quell’unico che ha presentato la proposta o l’ha messa ai voti. Il popolo di Atene sa ben distinguere i cittadini dabbene dalla canaglia; ma, pur sapendolo, predilige quelli che gli sono benevoli e utili, anche se sono canaglie e la gente dabbene la odia proprio in quanto per bene. Per migliorare un regime politico si possono escogitare molti espedienti, ma tener fermo che la democrazia debba sussistere e al tempo stesso escogitare qualcosa per migliorarla, non è possibile, se non limitandosi a ritocchi minimi “.
Anche per Platone la democrazia nasce da un atto di violenza e per Aristotele, al pari di oligarchia e tirannide, forma deteriore: significa essenzialmente dominio di un gruppo sociale, non necessariamente della maggioranza. Indubbiamente si tratta di un ideale, il cui cammino storico tormentato, pure afflitto da tanti insuccessi e parziali realizzazioni, si presenta come la forma politica più alta tra tutte, e non mai appieno tradotta, capace sempre di conciliare libertà e doveri, uguaglianza e al tempo stesso rispetto d’ogni persona, senso di giustizia e di comunità e la massima espressione dell’io.
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