“I virus mutano ma anche gli uomini non scherzano”, questa è l’ultima frase del libro sul Lessico Pandemico, di Antonio Balistreri tratto dai volantini militanti pubblicati da Asterios Biblio editore di Trieste e dal titolo emblematico “Solitudine” con un sottotitolo ancora più paradigmatico “Utilità e danno per la vita”. Un libro di poche pagine ma molto dense e piene di spunti per riflettere sulla nuova condizione che il genere umano si è trovato a fronteggiare negli ultimi due anni. Solitudine come malattia latebra, nascosta e segreta che produce malattie psichiche o invoca divinità e filosofie norrene. Una vera e tragica involuzione antropologica, quella pandemica, che sottrae gli individui alla relazione interumana naturale sostituendola con artifici comunicativi mediatici.
La vera rivoluzione la hanno fatto e la stanno facendo, gli smartphone, lo smart working, lo streaming e Zoom, facendo agire (ed esistere) l’uomo là dove l’uomo non c’è. Come lo specchio che fa vedere un’immagine di se stessi dove noi non ci siamo, perché la vera vita è al di qua dello schermo e al di qua dello specchio. Utilità e danno per la vita: questo è il punto nodale della solitudine. Una positiva e cercata nel silenzio del pensiero, e una fatale in cui si è costretti e che produce disagio e malattie.
Le inedite parole d’ordine di questo periodo, “arancione rinforzato, rosso, giallo, ecc. ecc”. (vi immaginate un daltonico?) “distanziamento sociale” “lockdown” e “isolamento” richiamano Dissipatio HG il capolavoro di Guido Morselli, edito da Adelphi dopo il tragico suicidio del 1973, un libro cult della mia generazione. Profetico e visionario come sempre, Morselli immagina la sparizione dell’uomo – l’Humani Generis del titolo – per un misterioso evento, raccontando la una spettrale solitudine di Crisopoli (Zurigo) dopo il “l’oscura scomparsa della razza umana”. Scrive: “ma ora che sono tutti spariti, la terra non sente che le manchi nulla”. se il genere umano è relegato in una grotta costruita con le sue stesse mani (le case) dove il protagonista si trova solo e sgomento, Gaia respira meglio, c’è meno inquinamento, flora e fauna tornano rigogliosi. Più o meno ciò di cui si sente parlare ossessivamente in questi ultimi mesi. Il solo David Quammen in Spillover (2012), un libro visionario e tristemente profetico, aveva previsto questa pandemia venuta dai mercati delle affollate città cinesi. Ma nessuno gli ha dato credito… Un deserto urbano e ancestrale, quello di Morselli, raccontato dal protagonista, alter ego dello scrittore, che mette in luce la condizione umana dinanzi alla evaporazione della specie: la solitudine.
I solitari hanno vita breve, scrive Balistreri, e cita ricerche e dati impressionanti su un fattore patogeno come la solitudine che crea uomini cinici, obesi, ipertesi, alcolisti, diabetici, fumatori ed eremiti. Ma soprattutto porta alla depressione, quel male oscuro che mina anche le menti più fervide e creative che non vedono la luce in fondo al tunnel, solo buio, nient’altro che buio. Certi fallimenti umani come è accaduto a Morselli conducono a gesti estremi, ma peggio ancora all’indifferenza verso la vita.
Il percorso dalla scimmia all’uomo è stato lungo e strano, noi siamo gli ultimi sopravvissuti, come ogni animale sfuggito all’estinzione: l’evoluzione è stata segnata da catastrofi, epidemie, stragi, guerre.
Noi sapiens abbiamo eliminato i Neanderthal: quando li abbiamo incontrati li abbiamo superati con l’arguzia. La nostra sorprendente capacità di adattarci alle modifiche radicali che avvengono intorno a noi anche con un po’ di fortuna ha reso l’intelligenza dell’uomo davvero superiore ad ogni primate comparso in milioni di anni dopo che Lucy si è evoluta da australopiteco. E sembra farla ancora da padrone grazie a grandi conquiste da quando la posizione di bipede gli ha permesso l’utilizzo delle mani, e poi la scienza della cura, l’invenzione del linguaggio, e la rivoluzione tecnologica del lavoro, ma adesso contro un virus invisibile è stato costretto a misurare tutta la sua impotenza e fragilità. Balistreri ci arriva attraverso una riflessione filosofica, (lui stesso ha insegnato filosofia al Cairoli) passando dalla poesia di Leopardi, Dialogo di un folletto e di uno gnomo e citando Seneca e molti altri filosofi (tedeschi), fino a ricordarsi a un passo di una canzone d’amore sulla solitudine di Sergio Endrigo, “Coltivare la solitudine come un fiore” che Heidegger pone in una quaestio fondamentale “Il mio Esserci ha a che fare con un altro simile a me” e non con l’essere soli al mondo. Come dire: io faccio parte di una squadra e non sono solo bravo a tirare a canestro. Ecco, l’umanità si è consorziata nel progresso ma anche nella (suo malgrado) graduale distruzione del pianeta e del suo ecosistema.
Stavolta però come lo stesso Morselli, in una sorta di lockdown ante litteram, ammette che l’uomo scompare per sua colpa, e la Natura non se ne accorge neppure. Ecco se pensiamo a questa frase morselliana, c’è la rivelazione del libro sulla solitudine di Balistreri, ma anche per il ruolo che il Pianeta ha avuto in questa pandemia, cioè non sa che farsene dell’uomo che inquina, uccide, distrugge, prevarica, che addirittura rivaleggia con l’Universo e sembra mandare una sorta di avvertimento: la non indispensabilità della vita umana!
Ecco l’altra grande terribile rivelazione: l’evoluzione umana si è arrestata, lasciando posto a una involuzione dell’individuo e all’annientamento del solitario attraverso la globalizzazione. La comunicazione, la pubblicità, il marketing, che esplicano ruoli fondamentali nelle relazioni, quando è spento il pc o la tv, dopo uno Zoom o un Webinar, o Facebook, o in chat con Tik Tok, o Whatsapp dove i social sono il modo di socializzare, le persone si trovano nel loro habitat dentro a una “solitudine a distanza”. Non si è più connessi allora si è isolati. La solitudine, se non è transitoria, è perdente sotto ogni punto di vista, perché sconfigge le relazioni umane. La solitudine non vince mai sulla moltitudine, né sulla intelligenza né sul calore umano, né sulla capacità critica di offrire una relazione di fronte alla realtà circostante, sempre che ci sia qualcosa da vincere o da dividere.
È vero che la sindrome della caverna ci ha abituati a non uscire più di casa, a non avere più rapporti “in presenza” ma la cosa più agghiacciante è che spesso ci troviamo anche bene e per questo ci siamo abituati. A questo tipo di giovani dell’homo sapiens interessa poco, basta un like, un selfie, e magari essere al top di un influencer, e avere più followers possibile, ma senza schermo sono finiti, depressi, malinconici, diventano hacker di se stessi, e sfogano tutta la loro frustrazione nell’anonimato degli odiatori del web che diffondono solo misera ignoranza. Abbiamo visto Sanremo, dove bisogna esibirsi solo davanti a uno schermo, gli spettatori non sono più così necessari, basta mostrare piercing o tatuaggi di una eccentricità stravagante e il gioco è fatto. È come ridere della stessa barzelletta da soli nella stessa solitudine di quei nove milioni di italiani come dice Recalcati che vivono soli.
A questo punto serve poco esserci, mi viene in mente una domanda che faceva spesso una mia amica: preferisci la solitudine del nido o quella del formicaio? Balistreri lo sa e lo scrive, si è sempre soli, l’ospedale presta tutta l’assistenza del caso ma al moribondo si nega l’assistenza dell’anima, si muore in solitudine con gli altri, senza poter essere assistiti dai propri cari, senza un saluto finale, ecco la vera disumanità di questa pandemia. La solitudine è sempre una perdita, seppur transitoria, e i progressi della medicina hanno fatto diventare più terribile la morte, perché hanno reso sempre più prolungato il periodo della vita senile, spesso accompagnato da disturbi e malattie.
Del resto il ricovero degli anziani in RSA è una sepoltura anticipata, si spegne ogni affetto, ma anche si costringe a vivere con persone estranee come badanti, o compagni di camera con cui non si ha il benché minimo vincolo affettivo positivo. Si, in questa solitudine più che un allungamento della vita si dovrebbe parlare di un “procrastinamento della morte”, e citando il sociologo tedesco Max Weber dal libro di Antonio Balistreri, non si muore più “sazi di vita”, ma “stanchi della vita”. Un libro tanto difficile da leggere quanto indispensabile in questa era buia e solipsista.
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