Non si può far finta che non esista il problema: non è questione di quel tal prete troppo lungo nei suoi sermoni, o di quell’altro troppo noioso, e così via. Resta sempre attuale la vecchia domanda: la Chiesa sa parlare ai suoi fedeli? Sa usare il linguaggio giusto? Se pensiamo che per la maggior parte delle persone presenti in chiesa per la Messa quell’omelìa rappresenta l’unica possibilità di sentire parlare di Dio, si scopre allora che porsi seriamente la domanda sulla qualità della predica diventa fondamentale per un credente.
Diciamo che la sensazione maggiore è quella di una “distanza”. È vero che la predica è solo una parte del rito della Messa, ma è una parte fondamentale nella comunicazione e nella comprensione. Certo, non è serio generalizzare: esistono sicuramente ottimi comunicatori della Parola di Dio. Ma che mediamente esista una eccessiva “distanza” tra la Parola e la gente pare evidente.
Il tema non è nuovo. Ne discuteva già una decina di anni fa la rubrica “Il Teologo”, a cura di Silvano Sirboni, su “Famiglia Cristiana”: “Al ministro ordinato è affidato il compito di tradurre oggi, qui e per noi la Scrittura in modo che la Parola di Dio si faccia evento, risuoni nella storia, susciti la trasformazione del cuore dei credenti”. Per poi proseguire: “Sembra che molte omelìe siano astratte, lunghe, ripetitive, incapaci di far risuonare nella storia l’entusiasmante e concreto messaggio di Dio. Persiste il vecchio stile della predica moralistica (…) o esasperatamente spiritualista, fatta di logori luoghi comuni che non toccano più la sensibilità odierna”.
Ripeto, generalizzare è ingiusto e ingeneroso. Ma il problema è sottovalutato e non è affrontato con la giusta attenzione nelle nostre parrocchie. Papa Francesco ha sottolineato: “L’omelia è la pietra di paragone per valutare la vicinanza e la capacità di incontro di un Pastore con il suo popolo”. E se si pensa che questo è spesso l’unico luogo di incontro per molti fedeli, in questa società in cui la fede è sempre più marginale, diventa davvero colpevole che a questo tema non si dedichi maggior studio.
Da sempre sulle prediche si sono fatti commenti (e spesso battute). Scriveva Tomàs Spidlik, cardinale e teologo ceco: “Nella Messa la Chiesa ha posto il Credo dopo l’omelia per invitarci a credere nonostante quello che abbiamo ascoltato”. E Yves Congar, cardinale e teologo francese: “Nonostante trentamila prediche fatte ogni domenica è sorprendente che in Francia c’è ancora la fede”.
Certo, sono battute ad effetto, ma contengono la domanda fondamentale: la Chiesa sa parlare ai suoi fedeli? Il linguaggio usato è diventato sempre più estraneo, lontano dalla esperienza e dal bisogno quotidiano. Gli “ascoltatori” parlano un’altra lingua. Di quanto si è ascoltato spesso non si è colto neppure il senso. E si è solo sperato che finisse in fretta.
Eppure la domanda, come aveva ripetuto molte volte il cardinale Carlo Maria Martini, resta una, chiara e fondamentale: le Scritture che sto ascoltando oggi (di per sé spesso difficili o incomprensibili) cosa dicono a me, proprio a me, qui e adesso. A me, uomo del mio tempo, con i miei problemi, con i miei pensieri, con il mio linguaggio. A me in questa società in cui Cristo è sempre più estraneo o marginale (ma che se sono qui in questa chiesa vuol dire che in qualche modo tengo a questo rapporto con Dio nella mia vita).
Non si tratta di “accarezzare” l’auditorio, minimizzando o banalizzando il messaggio. O peggio ancora, fare teatro. Ma si tratta di chiedersi sempre se le parole usate e le modalità di esposizione hanno ancora la giusta capacità di comprensione prima e di attrazione poi.
Ricordo sempre qualche anno fa, nella chiesa di Masnago strapiena per una Cresima, l’omelia di un Vescovo (lascio perdere il nome). Davanti a tanta gente che forse da trent’anni non metteva piede in una chiesa, per oltre venti minuti ha svolto una dotta omelia sulla Trinità. Parole sacrosante, sia ben chiaro, ma estranee e incomprensibili per la maggior parte dei presenti. Mi ero chiesto: non si è persa un’occasione per ricordare semplicemente la “bellezza” e la “gioia” del messaggio cristiano e di come questo messaggio possa avere a che fare con la nostra vita di tutti i giorni?
Ragionare sul linguaggio e più in generale sulla comunicazione è un tema che la Chiesa ha affrontato negli anni a più riprese. Gli esperti del campo ricordano ad esempio gli studi di padre Nazareno Taddei, gesuita, che fu esponente di rilievo in questo settore e che approfondì proprio il tema della comunicazione anche come consulente di registi come Olmi e Pasolini. Padre Taddei nel suo “Predicazione nell’epoca dell’immagine”, testo di oltre cinquant’anni fa, già allora poneva come cardini della predicazione coinvolgente: competenza, convinzione e coraggio. In altre parole: studio e attenzione pastorale.
Nel suo “Corso di Predicazione”, Padre Taddei partiva da una domanda fondamentale: “Qual è il linguaggio che la gente oggi è in grado di cogliere? “. E proseguiva: “Senza andare troppo sul difficile, io chiedo: come mai quando parli in casa o tra amici parli in un certo modo e quando parli sul pulpito è come se girassi un rubinetto sul tuo consueto modo di parlare? La risposta è che non ci siamo ancora abituati a “tradurre” in termini correnti, legati appunto al linguaggio indotto dall’epoca dell’immagine, i concetti teologici che abbiamo”.
E ancora: “Una predicazione che non si preoccupi di usare un linguaggio effettivamente accessibile sia per la natura e il modo del linguaggio sia per l’effettiva disponibilità recettiva del destinatario del messaggio, è una predicazione non solo inutile bensì controproducente, perché annoia, si mostra irritante”. E la cosa peggiore è che “fa scaricare sull’oggetto della predicazione, cioè la religione, la noia e l’astio che dovrebbe scaricarsi solo sull’imbelle predicatore”. Parole senza mezzi termini.
Uno studio del 1979 del CISCS dava già allora cifre su cui si sarebbe dovuto maggiormente meditare: il 27 per cento dei sacerdoti predicava “a braccio”, il 73 per cento dei sacerdoti preparava le prediche (anche se solo il 20 per cento le metteva per scritto studiandole). La grande maggioranza dei predicatori si riteneva soddisfatta: riteneva riuscita la propria omelia. L’inchiesta proseguiva però mettendo in evidenza come questa non fosse la percezione del pubblico. In parole povere: oltre il 70 per cento della gente ammetteva di non aver capito affatto il senso profondo di quello che il sacerdote, tutto soddisfatto, credeva di aver ben predicato. Se riproponessimo oggi questo studio, crediamo di ottenere un risultato diverso? Ecco il significato, allora, di quello che all’inizio avevamo definito come “distanza”.
Viene in mente un commento di Francois Mauriac, scrittore e drammaturgo: “Non c’è nessun altro luogo in cui i volti sono così inespressivi come in chiesa durante le prediche”.
In conclusione, se pensiamo che per molti questo è l’unico contatto con le Scritture ci chiediamo: tutto questo non merita domande?
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