I più giovani non lo sanno. Perché non hanno vissuto quei tempi e non li hanno studiati a scuola. Ma c’è stato un periodo nella storia dell’economia italiana, subito dopo il miracolo economico degli anni ’50 e ’60, in cui uno dei problemi principali era l’aumento costante e incontrollato dei prezzi, quel fenomeno che gli economisti chiamano “inflazione” a cui si aggiunse correttamente l’aggettivo galoppante.
A partire dal 1973, dopo il forte rincaro del petrolio per l’embargo seguito alla guerra del Kippur tra Israele e i paesi arabi, in Italia vi furono almeno quindici anni in cui il tasso di inflazione non scese mai sotto al 10% per avvicinarsi a quota 20% nel ’74, quota superata nel 1980. Solo nel 1985 si scese sotto il 10%, dieci anni dopo si superò, sempre in discesa, il 5% e da allora l’andamento dei prezzi, grazie all’adesione alla moneta unica europea, si è sempre mantenuto a livelli vicini al 2% con punte addirittura in senso negativo nel 2016 e nel 2020.
Il giro di boa dell’anno Duemila ha fatto, inconsapevolmente, da spartiacque tra due mondi. Negli ultimi decenni del secolo scorso l’inflazione era uno dei temi economici di maggior preoccupazione, un’inflazione che è invece praticamente sparita dai radar negli anni più recenti.
Aprendo una parentesi si può ricordare che le statistiche sui prezzi sono le più contestate. Si tratta di medie calcolate tenendo conto della generalità dei consumi. Ma ognuno ha la sua inflazione personale: se una famiglia mangia tanti pomodori e i pomodori aumentano di prezzo la sensazione di un aumento generalizzato sarà superiore di una famiglia che mangia tanti spaghetti e, magari, gli spaghetti restano a buon mercato. E gli psicologi insegnano che si presta maggiore attenzione alle notizie negative, come un aumento dei prezzi, che non a quelle positive, come può avvenire, e talvolta avviene, se i prezzi di alcuni beni o servizi diminuiscono.
E allo stesso modo è opinione comune che all’avvento dell’euro i prezzi siano addirittura raddoppiati e a nulla valgono le osservazioni di fatto che possono puntualmente smentire questa tesi. Nei cinque anni successivi al 2002, anno in cui è entrato in circolazione l’euro, i prezzi sono infatti aumentati in media solo del 2% all’anno, per poi avviare un periodo, che dura tutt’ora, di sostanziale stabilità. Gli ultimi dati vanno in questa direzione: nel mese di febbraio l’indice nazionale dei prezzi al consumo per l’intera ha registrato un aumento dello 0,1% su base mensile e dello 0,6% su base annua.
Senza inflazione si vive molto bene salvo il fatto che la stagnazione dei prezzi va di pari passo con la stagnazione dell’economia e che quindi un rincaro, piccolo e limitato, potrebbe favorire la dinamica dei consumi e quindi dell’occupazione.
In effetti le banche centrali dalle due parti dell’Atlantico stanno da anni cercando, almeno a parole, di far uscire l’inflazione da quota zero con l’obiettivo, considerato virtuoso, non solo di arrivare, ma anche di non superare, quota 2%. Ma le politica monetarie espansive hanno potuto fare poco o nulla di fronte a fattori strutturali che hanno continuato a frenare le economie. L’elenco potrebbe essere lungo: si va dalla frenata demografica nei paesi industrializzati agli effetti delle rivoluzioni tecnologiche, dalle guerre commerciali al dramma, nell’ultimo anno, della pandemia.
Qualcosa tuttavia sembra muoversi nelle ultime settimane. Si è tornati a parlare di rischi di inflazione, non solo moderata, mettendo in fila alcuni elementi non di secondo piano. Un segnale di allarme è stato l’impennata nei rendimenti delle obbligazioni governative americane dopo il varo del piano di interventi per quasi duemila miliardi di dollari varato dalla nuova amministrazione di Joe Biden. Un altro elemento è venuto dall’andamento dei prezzi del petrolio e delle materie prime, indicatore anche questo di una ripresa economica reale o almeno potenziale. Analogo andamento per le materie prime come per esempio il rame che ha toccato quotazione che non vedeva da dieci anni. Per i prodotti agricoli alla borsa di Chicago, dove peraltro non mancano le speculazioni, i prezzi di mais e soia hanno raggiunto i massimi da sette anni.
Il rischio è palesemente quello che l’inflazione possa sfuggire di mano. E un’inflazione galoppante, come la si è avuta negli anni ’70, sarebbe la più ingiusta delle tasse facendo diminuire il valore di stipendi e pensioni.
You must be logged in to post a comment Login