In alcuni edifici convergono grande storia, memoria collettiva, consuetudine affettiva e forti impronte simboliche. La loro capacità di incorporare simboli colpisce l’immaginario collettivo, si amplia e trasforma con il mutare dei contesti e delle configurazioni in cui si situano. Nel divenire dei loro destini, questi edifici non finiscono monumentalizzati, non perdono le vestigia dei ruoli che il tempo ha stratificato, e anzi si arricchiscono. Certi edifici storici sono ricchi, altri poveri o privi di forza simbolica. Alcuni sono immediatamente leggibili, altri non sono facilmente riconoscibili o non più decifrabili. Accosterò in modo incongruo e arbitrario un gigante e un nanetto da giardino. ll Reichstag di Berlino è un edificio bellissimo, tra i più noti al mondo; la sua simbolicità è immediatamente leggibile. Palazzo Estense avrà anche un valore affettivo nella vita dei varesini, avrà qualche possibilità d’uso sinora mai sfruttata per insipienza, ma è periferico persino nel quadro dell’architettura lombarda e il suo modesto appeal simbolico annega in un’anonima e mortificante destinazione burocratica. Come possiamo, pur nella sua modestia, incrementare la sua simbolicità e renderla decifrabile?
Il Reichtstag ha attraversato cinque regimi: la monarchia; la Repubblica di Weimar; il nazismo; la Repubblica Federale Tedesca, con Bonn capitale in luogo della spartita Berlino; la Germania riunificata dopo la caduta della DDR, con di nuovo capitale Berlino. Concepito sul finire dell’età bismarckiana, venne inaugurato nel 1894 da Guglielmo II, l’imperatore che accompagnò la politica tedesca dal 1890 alla sconfitta militare nel 1918. Il Reichstag ospitava la Dieta Imperiale, un’assemblea non propriamente parlamentare, visto il carattere autoritario della monarchia degli Hohenzollern e il ruolo ridotto svolto dalle assemblee elettive, subordinate al sovrano e al governo.
La Germania era allora al culmine della sua potenza economica, scientifica, tecnologica, culturale e militare. Il Reichstag incarnò la vocazione espansiva della nazione tedesca unita sotto una dinastia regnante che si faceva interprete di un disegno egemonico nell’Europa centrale e balcanica, e di una proiezione coloniale in Africa. Alla caduta della monarchia si insediò nel palazzo il parlamento repubblicano, una democrazia molto avanzata in una società vivace e aperta ma esposta a molte minacce: la recessione, l’inflazione, l’instabilità interna, il peso politico dei militari, le forze estremiste di sinistra, internazionaliste e staliniste, e di destra, nazionaliste, antisemite e revanchiste. Il Reichstag fu incendiato dai nazisti poco dopo la loro ascesa al potere in un governo di coalizione. Attribuito a fantomatiche opposizioni, l’incendio permise a Hitler di assumere i pieni poteri e di dar vita a un compiuto regime totalitario nel giro di pochi mesi. Il regime spostò altrove i suoi simboli, edificando ex novo architetture pertinenti con i suoi fini. Tra il 1943 e il 1945 l’edificio fu pressoché irrimediabilmente danneggiato.
Con la divisione di Berlino il Reichstag, restaurato in modo approssimativo e destituito da compiti rappresentativi, spostati a Bonn, finì confinato in un deserto ai margini del Muro, in fondo al Tiergarten, tagliato fuori dalla Porta di Brandeburgo e dal Viale dei Tigli, dalla Hauptbanhof e dalla Postdamer Platz. La Germania riunificata dopo la caduta della DDR non esitò a riportare la capitale a Berlino. Il Parlamento della DDR [Volkskammer] era un palazzo orribile, di pessimo gusto e per giunta infestato di amianto. Si decise di abbatterlo, di riportare il parlamento federale [Bundestag] nel vecchio palazzo e di porre mano a tutto il quartiere lungo la Schelda fino alla Hauptbanhof (il quartiere a vocazione ministeriale era stato raso al suolo e i comunisti lo avevano abbandonato a se stesso). Con due scelte coraggiosa, il cancelliere Kohl e il borgomastro Dipgen, ambedue cristiano-sociali, riportarono il parlamento nel Reichstag e affidarono la sua risistemazione a Norman Foster, un geniale architetto inglese.
Il grande impatto emotivo e semantico del nuovo Parlamento commuove lo spettatore. La colonna su cui poggia la cupola è il fiore della rinascita. Il suo dilatarsi verso l’altro, fin quasi a reggere la volta celeste, si insedia nello spazio e nel tempo per accompagnare il respiro e la luce del rinnovamento. Gli spettatori all’interno della cupola, rappresentanti occasionali del popolo tedesco e di altri popoli del mondo, vengono avvolti da una luce che si frange a seconda dell’ora e del punto di osservazione. Ogni visitatore gode di un punto di vista diverso e diviene attore della metafora della democrazia, che ha i suoi fondamenti negli individui. Una comoda scala a spirale accompagna i visitatori al balcone superiore, da cui si osservano il cuore di Berlino e i parchi che lo costellano. Nel piano inferiore ha sede l’aula del parlamento. I pannelli permettono di intravedere, con qualche gioco di riflessi, il sopra da sotto e il sotto da sopra. La casa della politica è trasparente. In sovrappiù Foster aggiunge un messaggio ambientalista: i pannelli della cupola trasformano i raggi solari in energia sostenibile.
Nel Reichstag la storia nazionale parla a tutto il mondo, e la sua universalità lo rende unico. Il simbolo della Germania democratica spiega ai visitatori i tre frutti dell’esercizio attivo della sovranità popolare: la legittimità democratica del potere legislativo ed esecutivo; il ruolo del popolo sovrano nel vigilare sull’impiego della delega rappresentativa nel quotidiano lavoro del parlamento; e la trasparenza a cui le istituzioni rappresentative sono tenute. Il Reichstag è la promessa della democrazia nel suo continuo e faticoso adempiersi. Ogni anno milioni di tedeschi rinnovano il culto della religione civile e riconfermano il loro attaccamento ai valori liberali e democratici. Il senso di espiazione per i crimini del nazismo e per l’oppressione patita durante la dominazione comunista alimenta l’orgoglio della cittadinanza per il suo modo di vivere e le sue istituzioni. Anche i visitatori stranieri si immedesimano con questo attaccamento.
Torniamo da Berlino al nostro scialbo villaggio. Ultimato nel 1777, Palazzo Estense fu la residenza di un nobile di modesto rango, Francesco III d’Este, duca di Modena, cui Maria Teresa d’Austria conferì nel 1765 una signoria su un piccolo territorio rurale e manifatturiero sito a mezza giornata di carrozza da Milano. La residenza, ampliata rispetto alla villa originaria, si articola in zone funzionalmente distinte: la rappresentanza, la festa, l’amministrazione, gli appartamenti privati, la cappella, la biblioteca, le aule per i precettori, le stanze per servitù, fiduciari e ospiti, i cortili, il porticato e i due scaloni d’onore.
Il parco estende all’esterno le funzioni di rappresentanza, di festa e di piacere del palazzo, ospita svaghi come la danza, i concerti, le passeggiate, la conversazione, gli amori, il gioco, la caccia, e consente il parcheggio delle carrozze e il ristoro dei cavalli. Nulla di diverso da centinaia di altre ville in un raggio di 50-70 km da Milano. Il palazzo rimase una villa privata durante la Repubblica Cisalpina, che nel 1797 elevò Varese a capoluogo di dipartimento, con il ritorno austriaco, quando Varese fu elevata a rango di città, e ancora nel primo ventennio dell’Italia unita.
Nel 1882 intervenne un netto cambiamento. Palazzo Estense fu scelto per ospitare il governo cittadino. Le sale vengono destinate al Consiglio Comunale, al sindaco, agli assessori, agli uffici apicali, alla burocrazia e ai servizi al pubblico. Il trasferimento dal Broletto, dove già non si celebrava più il Consiglio Comunale, fu una scelta coraggiosa della Varese riformatrice, laica, liberale e mazziniana, condotta allora da Calisto Veratti. Il parco non fu secondario nel decidere il trasferimento. I riformatori vedevano nel binomio palazzo e parco, un bene di tutti, accessibile: la casa del governo locale apriva a tutti le delizie del parco e di alcuni saloni. La dittatura, che nel 1927 riunì a Varese alcune castellanze autonome, subordinò l’istituto podestarile al Fascio locale. Palazzo Estense si ridusse a un corpo di uffici politicamente marginale. Con la liberazione tornò ad essere il simbolo della vita politica e civile, ma non è diventato “la casa di tutti”, nonostante gli slanci degli anni aurei della ricostruzione democratica. Il palazzo resta un contenitore di uffici; solo in pochi ambienti liberi da scartoffie vi si tengono alcuni consigli e riunioni, cerimonie pubbliche, concerti, matrimoni, conferenze stampa. La vita politica si è rarefatta. Il parco resta lì, nella sua separatezza: il suo degrado spezza il cuore: si protrae da decenni ma ora ne cogliamo tutta la gravità. Capovolgendo la logica originaria, il parco, pur nel suo stato miserando, è oggi la ragion d’essere del palazzo, non il suo prolungamento. Abbiamo degli uffici per impiegati in un parco malandato. Chi entra nel porticato non sa che il palazzo è il perno della vita civile, la casa di tutti in cui si concentra la storia della città. Parco e palazzo non si fondono. La storia non si legge. Le stanze della democrazia non si vedono. Alcune decorazioni sopravvivono, altre sono state sacrificate dall’insipienza di qualche impiegatucolo. Ora un progetto inaccettabile minaccia di traslocare in un edificio sordo una biblioteca storica di 350.000 volumi ambientata in spazi bellissimi. Il simbolo della città è muto, tace e non vi scorre la vita. Il parco ospita trenini, minigolf, parcheggi, tendoni, e il suo stato mette malinconia. Il paragone con il parco di Villa Panza è impietoso e dice tutto sui vertiginosi abissi di sciatteria che in Italia separano il neghittoso settore pubblico da quello privato.
Possiamo continuare a restare senza un simbolo. Molte altre città morte ne sono prive. Ma se ne vogliamo uno abbiamo una sola soluzione: svuotare il parco, risistemando il paesaggio, le alberazioni, le decorazioni, i camminamenti; e sfrattare la burocrazia, restituendo ai cittadini un palazzo rococò che si fa traversare dal flusso della vita carezzando con passo attento in un originale percorso museale il mobilio, gli stucchi, gli affreschi, le quadrerie, i libri, gli scaloni e gli spazi della festa e della musica che si intrecciano con quelli della democrazia che ancora strenuamente difendiamo.
Lodevolmente Italia Nostra ha fatto proprio questo progetto. Ehilà! c’è qualcuno?
You must be logged in to post a comment Login