È stato come uscire di prigione. La metafora usata dal papa per spiegare il suo stato d’animo al termine del viaggio in Iraq rende bene l’idea. Lontano dalle lotte vaticane, dimenticati i nemici e le critiche, le accuse di eresia, i processi e i conti in rosso della Santa Sede, Francesco è ritornato a respirare l’aria fresca della missione verso gli altri, verso chi soffre, verso chi ha bisogno della sua parola per immaginare una vita migliore. In questo caso il destinatario era il popolo iracheno dilaniato dalle guerre, ridotto a vivere fra le macerie e che tuttavia non ha perso la speranza. Le manifestazioni di gioia per la visita dell’uomo in bianco sono lì a dimostrarlo.
“Questo viaggio è stato per me rivivere, anche se sono molto più stanco perché gli 84 anni non vengono da soli”, ha confessato il pontefice ai giornalisti durante il volo di rientro. I rischi di contagio a contatto con le folle? “Mi sono rimesso alla protezione divina”. Le accuse di eresia? Il dialogo di fratellanza con l’Islam iniziato nel 2019 ad Abu Dhabi con l’iman sunnita Al-Tayeb e proseguito ora con l’ayatollah sciita Al-Sistani? “Ce ne saranno altri – ha risposto il pontefice – Il cammino della fratellanza è importante ed è alla base dell’enciclica Fratelli Tutti. Il Concilio Vaticano II ha aperto la strada ed è giusto rischiare per percorrerla. Non è un capriccio”.
“Voi sapete – ha proseguito Francesco – che per questo viaggio sono stato criticato. Mi hanno accusato di essere un incosciente che fa dei passi contro la dottrina cattolica, di sfiorare l’eresia, di affrontare troppi rischi, di facilitare il contagio tra la gente. Queste decisioni si prendono sempre dopo tanto pensare e pregare. Riflettendo, chiedendo consiglio, avendo la consapevolezza dei pericoli che si corrono. Ho sentito il dovere di fare un pellegrinaggio di fede e di penitenza, di andare a trovare un saggio, un uomo di Dio. Soltanto ascoltandolo lo si percepisce. L’ayatollah Al-Sistani è un uomo umile. L’incontro con lui è una luce che ha fatto bene alla mia anima”.
L’Iraq è angustiato dalla crisi economica, dalla disoccupazione, dalla corruzione e dal dramma di più di un milione e mezzo di sfollati interni che mettono a dura prova qualunque piano di sviluppo. E naturalmente dalla guerra. Gli iracheni fuggono dalle violenze dell’Isis e del conflitto con l’esercito regolare, dalle auto-bomba e dalle raffiche di mitra, sono costretti ad abbandonare le loro case e a cercare salvezza altrove, anche all’estero. Il papa abbraccia idealmente le comunità scampate alla furia e condanna l’uso delle armi: “Diciamo no al terrorismo e alla strumentalizzazione della religione – scandisce – Siamo tutti fratelli e non si uccide in nome di Dio”.
Francesco ha visto le rovine di Mosul devastata dal Califfato sorvolandola con l’elicottero e pronuncia parole paterne: “La migrazione è un diritto umano ed è un diritto doppio, poter migrare e poter scegliere di non farlo, invece questa gente non ne ha alcuno. Dicendo messa nella chiesa distrutta mi sono posto la domanda: ma chi vende le armi a questi distruttori? Abbiano la sincerità di dirlo”. A Qaraqosh, nella piana di Ninive che le milizie jihadiste invasero nel 2014 costringendo 120 mila persone a fuggire (ma l’esodo era già iniziato ai tempi della guerra contro Saddam Hussein), il papa è stato accolto dai fedeli cattolici e da musulmani arabi, kurdi e yazidi.
Un segno che la ricerca della pace attraverso il dialogo interreligioso è possibile. La conferma che il messaggio di fratellanza è stato capito. Ma non al punto di spegnere nuove polemiche, in questo caso rivolte al governo iracheno: “Nella città natale di Abramo non c’era un ebreo – protesta Tzionit Fattal, una ricercatrice che ha pubblicato nel 2017 un romanzo sulla storia degli ebrei iracheni – Non è stata menzionata una comunità di 2500 anni oggi estinta. Questo fa parte del piano di cancellazione della storia ebraica in Iraq dai libri di storia, dai luoghi di culto convertiti in moschee, ridotti a discariche o distrutti dall’Isis come la tomba del profeta Giona a Mosul”.
Ora ci si domanda se dopo il bagno di folla in Iraq riprenderanno le udienze generali in Vaticano: “Vorrei farlo al più presto, mi sento diverso quando non posso avvicinarmi alla gente – ha risposto Francesco – Speriamo che ci siano le condizioni, mi adeguo alle norme indicate dalle autorità. Intanto ho ricominciato con l’Angelus in piazza, con i distanziamenti si può fare”. E ci saranno altri viaggi ora che il ghiaccio è rotto? Prossimamente il papa andrà in Ungheria alla messa del congresso eucaristico internazionale e sta facendo un pensierino a visitare la Slovacchia. No, per il momento, ad un viaggio in Siria (“che ho nel cuore”, dice il papa). Possibile in Libano.
Quanto all’Argentina, il ritorno nei luoghi natali era nei piani nel 2017 ma Francesco, durante il viaggio di ritorno verso l’aeroporto di Ciampino, ha assicurato che non soffre di “patriafobia”: “Quando ci sarà l’opportunità si potrà fare – ha spiegato – anche perché con l’Argentina ci sono da visitare l’Uruguay e la parte meridionale del
Brasile”. E in segno di scaramanzia, in vista del compimento dell’ottavo anno con la tiara – lui che aveva previsto per sé un “corto pontificato” – Francesco ha incrociato le dita.
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