“Vattene dalla tua terra,/ dalla tua parentela/ e dalla casa di tuo padre/ verso la terra che io ti indicherò./ Farò di te una grande nazione/ e ti benedirò,/ renderò grande il tuo nome/ e possa tu essere una benedizione./ Benedirò coloro che ti benediranno/ e coloro che ti malediranno maledirò,/ e in te si diranno benedette/ tutte le famiglie della terra”. disse la voce divina ad Abram, che era nato e viveva ad Ur, capitale della Caldea, una regione della Mesopotomia, terra ricca e fertile perché racchiusa tra due fiumi, il Tigri e l’Eufrate. Abram si mosse dal suo paese e si avviò verso regione indicatagli, la “terra promessa” a lui e ai suoi discendenti. Abram fu il capostipite di una discendenza molto numerosa “come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare”. Da questa terra Abramo non si mosse più, ma vi tornarono i suoi discendenti, dopo l’esilio in Babilonia. Il pensiero di quei profughi andava “sulle ali dorate” e si posava “sui clivi e sui colli” della terra data da Dio a Abramo. Da quel popolo nacque Gesù di Nazaret, figlio di Dio nato da una donna.
Abram concepì da una schiava un figlio, Ismaele, che divenne causa di gelosia tra la moglie e la schiava, per cui Abramo fu costretto ad allontanare da casa Ismaele che si rifugiò nell’area stepposa della Mecca. Ismaele è considerato il progenitore “nobile” degli arabi, anche se l’islam trovò in Maometto il suo profeta.
Mi perdoneranno i lettori se ho assai sintetizzata la “storia della salvezza” al fine di comprendere la nascita delle tre religioni monoteiste: l’ebraismo, il cristianesimo e l’islam, le tre “religioni del libro”: il primo testamento, il secondo e il Corano.
Sabato scorso, dopo aver reso visita all’anziano gran ayatollah Al- Sistani, Papa Francesco si è recato presso la Piana di Ur per l’incontro interreligioso (abbiamo notato con rammarico l’assenza del rappresentante dell’ebraismo!) dove ha pronunciato queste parole: “Da qui Abramo incominciò il suo cammino. Oggi sta a noi continuarlo con lo stesso spirito, percorrendo insieme le vie della pace! E a tutti voi chiedo di fare come Abramo: camminare nella speranza e mai tralasciare di guardare le stelle!” Le religioni non devono dividere gli uomini, la terra, il cosmo, ma connetterli, esse possono toccare vertici straordinari di convivenza. A ciascun uomo, sempre sull’orlo della sconfitta, è richiesto un incessante dispendio gratuito di energie, di tempo e di creatività per poter vincere la crudeltà del mondo.
Il cristianesimo si diffuse subito anche in Mesopotamia (oggi corrispondente grosso modo all’Iraq) ad opera dei primi apostoli, soprattutto di Tommaso. La chiesa irachena è, quindi, di origine antichissima ed è per questo motivo che a dirigerla c’è un “patriarca”: quello di Babilonia dei Caldei, il cardinale Sako, che presiede i cristiani di rito assiro. I cristiani, quasi tutti di lingua aramaica, la stessa che parlava Gesù, erano numerosissimi all’inizio del cristianesimo, ma diminuirono sempre più sotto la dominazione araba, mongola ed ottomana. Molti cattolici aderirono alle chiese d’oriente, dopo lo scisma. Sotto il protettorato britannico e durante il regime baathista, si installarono anche le chiese della riforma. I cattolici erano il 6% della popolazione (circa 1.400.000), oggi sono ridotti a 300.000 di diversi riti: assiro, armeno, melchita e latino.
Durante le persecuzioni dell’ISIS e l’instaurazione del sedicente califfato, i cristiani sono stati tremendamente perseguitati: le loro case bruciate, come pure le chiese con i fedeli riuniti in preghiera, i monasteri devastati, molti sono stati rapiti come ostaggi, assassinati, decapitati, le donne violentate, torturate. Molti sono fuggiti in cerca di protezione.
Domenica scorsa, papa Francesco ha incontrato i rappresentanti della chiesa cattolica nello stadio di Erbil. Ad essi ha rivolto l’appello “a rifuggire dalla tentazione della vendetta con la forza del perdono”. Non c’è pace senza perdono. È il perdono che spezza le catene del male. Il perdono non è debolezza, indulgenza, dabbenaggine. È coraggio. Solo i coraggiosi sanno perdonare, i vigliacchi non perdonano mai: non è nella loro natura. Li ha invitati a “ripulire il cuore” da tentazioni e logiche umane, “a sporcarsi e mani” per curare le ferite visibili e invisibili dei fratelli, avendo cura di loro, chinandosi su di loro. La fraternità, la solidarietà sono il nuovo nome della pace. Li ha esortati ad essere “artigiani di un nuovo ordine sociale, in cui non c’è più spazio per esplosioni di forza o per doppiezza dell’ipocrisia.” I cristiani iracheni sono stati invitati a riprendere il cammino della ricostruzione del Paese come sentinelle vigilanti che operano con la pazienza del dialogo, la conoscenza con tutte le anime dell’Islam, il reciproco rispetto: tutti valori che diventano speranza anche quando si è immersi nelle difficoltà.
E veniamo ai giorni nostri. Spiegare la situazione geo-politica dell’Iraq è cosa molto complessa e complicata. È difficile come districare una ragnatela, anzi una serie di ragnatele. L’Iraq, ricca un tempo, dell’oro bianco, l’acqua, oggi preferisce arricchirsi con l’oro nero, il petrolio. Dal possesso dei ricchi giacimenti di petrolio è nata la competizione tra Arabia saudita e Iran per il controllo del cuore della regione. La rivalità tra queste due potenze è stata riattivata dal rovesciamento da parte degli Stati Uniti nel 2003 del regime di Saddam. Volontà dell’Iran era quella di avviare la creazione di un corridoio di mussulmani sciiti (che sono la maggioranza sia in Iran che in Iraq) che comprenda lo stesso Iraq per attraversare la Siria e raggiungere il Libano. Tra Iran e Stati Uniti nacque un braccio di ferro per il controllo politico dell’Iraq. Nel frattempo si formarono sacche di terroristi sunniti, afferenti sia a Al Qaeda che all’ISIS. Da quel momento si assistette a una proliferazione di azioni militari condotte, per conto dell’Iraq, dell’Iran, da milizie da loro create e finanziate: sciiti contro sunniti, bande armate contro i cristiani e yazidi, ingerenza di potenze straniere.
A Mosul, città devastata dalla furia per tre anni dal terrorismo, i cristiani hanno incominciato il cammino di ricostruzione, anche in collaborazione con i musulmani. A Hosh al -Bieaa, la città delle quattro chiese, dove gli edifici vennero distrutti assieme ad un immenso patrimonio archeologico e culturale, tra le macerie seminate dalla morte e dal terrore, Francesco ha invocato il perdono di Dio e la grazia della riconciliazione: “Com’è crudele che questo Paese, culla di civiltà, sia stato colpito da una tempesta così disumana…Oggi, malgrado tutto, riaffermiamo la nostra convinzione che la fraternità è più forte del fratricidio, che la speranza è più forte della morte, che la pace è più forte della guerra.” E ha concluso con una preghiera che così inizia: “Se Dio è il Dio della vita – e lo è - a noi non è lecito fare la guerra nel suo nome.”
In questo momento in cui i leader politici mondiali non viaggiano, quell’uomo disarmato è andato in mezzo agli uomini vittime di odio e ai cristiani perseguitati. Ha voluto essere dove i suoi predecessori non poterono andare. Non ha solo condannato la stoltezza della guerra, ma ha unito un paese che non è mai stato nazione perché ha invitato musulmani, sciiti e sunniti, cristiani ad essere cittadini che appartengono allo stesso stato. “È stata una attraversata tra i lumi” – avrebbe detto Ratzinger, riconoscendo i principi che sono alla base della laicità dell’Iraq. Francesco ha insegnato a noi occidentali che essere cristiani non è facile. Mai come in questi giorni ho pensato così tanto a Giorgio La Pira, che voleva sconfiggere la guerra unendo le religioni abramitiche.
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