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Parole

CONFINAMENTO

MARGHERITA GIROMINI - 12/03/2021

lockdownAbbiamo imparato che ogni parola è strettamente legata al pensiero che la contiene.

Il ricorso all’americano “lockdown” per indicare la situazione di chiusura di gran parte delle attività socioculturali ed economiche vissuto nell’anno di grave emergenza sanitaria avrà avuto un suo peso.

Chissà se e che cosa sarebbe potuto cambiare se avessimo usato un’altra terminologia.

Tempo addietro ho incontrato un amico ticinese che vive al di là del confine ma di fatto è più vicino a me dell’amica che risiede a Gallarate.

Unisce noi e i ticinesi un intero sistema linguistico e letterario che ha lontane radici comuni: l’italiano con poche differenze è la loro lingua come la nostra, eppure …

Eppure mentre illustravo all’amico la durezza del mio “lockdown” lui mi aveva garbatamente interrotto per precisare che il nostro “lockdown”, loro lo chiamavano “confinamento”.

Ho glissato sull’argomento. So che è di moda ricercare parole di un’altra lingua, quasi sempre l’inglese, per individuare un termine esatto, il più breve e semplice, che in modo sintetico e preciso ci eviti di ricorrere alle perifrasi.

Lockdown è sembrata agli italiani la parola giusta per descrivere un isolamento duro ma necessario in un particolare periodo. Alla parola confinamento non si era pensato.

In quel momento credo di aver pensato a quanto poco moderno e incisivo fosse il termine confinamento scelto dagli svizzeri ticinesi: un’espressione da gentiluomo d’altri tempi.

Da allora ogni volta che uso il termine lockdown ne percepisco la durezza e l’estraneità.

Ora la parola lockdown si accompagna a flash di film: la cella d’isolamento di un prigioniero, le chiavi che la chiudono e richiudono con un suono sinistro, il vuoto terrorizzante del silenzio che regna intorno.

Affiora anche il ricordo di fiabe cruente come quella della giovane rapita e chiusa nella torre da una madre crudele o da un padrone violento.

Lock down: dove lock sta per chiudere e down per giù. Nel termine avverto un senso di dura solitudine e di paura, una sorta di inquietudine.

Durante il primo duro lockdown io ho reagito con rabbia mettendo in atto comportamenti di rifiuto della vita che si andava disegnando giorno dopo giorno.

Ho consumato compulsivamente quotidiani cartacei e moltiplicato gli abbonamenti online a siti che fornivano l’ultima notizia sulla pandemia, effettuato lunghe telefonate quasi interamente dedicate al tema covid, e ho faticato molto per recuperare parte del mio ritmo di forte lettrice. Ci sono volute settimane prima che un libro di narrativa riuscisse di nuovo a intrigarmi.

Al contrario, il termine usato dall’amico d’oltre confine si offre con uno scenario di significati ben diversi.

Durante il primo confinamento l’amico ticinese ha riordinato la biblioteca, lavorato ad alcuni aspetti della ricerca che sta conducendo da anni su temi di storia locale, usato parte del tempo da trascorrere dentro casa per telefonare a chi gli potesse fornire materiali o chiarimenti per il suo lavoro.

Il suo confinamento, che mi sono solo immaginata, mi sollecita il ricordo di scrittori famosi chiusi volontariamente nel loro eremo, intenti a cesellare la propria opera, circondati da confini materiali all’apparenza rigidi ma in realtà aperti al mondo.

Ha evocato uomini reclusi in un confino politico: Carlo Levi nello sperduto paese del Sud, o alcuni degli uomini che fecero l’Italia, condannati al confino, che nei lunghi anni di carcere su un’isola inospitale come Ventotene riuscirono a ideare grandi progetti.

Chissà se un lockdown chiamato invece “confinamento” avrebbe potuto produrre storie diverse da quelle che conosciamo.

Ma senz’altro ci può aiutare a riflettere sullo stretto legame tra parole e pensiero, sulle parole più forti che penetrano nella psiche come chiodi e lì restano a lungo.

“Un linguaggio diverso è una diversa visione della vita” scrive Gustave Flaubert.

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