Quarantaquattro giorni. Tanto durò l’esperienza della cosiddetta Repubblica dell’Ossola. Dal 10 settembre al 23 ottobre del 1944. Per quarantaquattro giorni, un territorio che andava grossomodo dalla Svizzera al Lago Maggiore, attraversato in quasi tutta la sua lunghezza dal fiume Toce, fu liberato dalla presenza di fascisti e tedeschi e vide il tentativo di autogoverno, al quale parteciparono rappresentanti di tutte le forze politiche antifasciste.
La Val d’Ossola aveva visto nascere formazioni partigiane già all’indomani dell’8 settembre del 1943. Per la sua importanza strategica (centinaia di chilometri di confine con la neutrale Svizzera; presenza di centrali idroelettriche, tra cui quelle che alimentavano Milano; il passaggio della linea ferroviaria del Sempione, utile per i rifornimenti delle forze di occupazione tedesca) aveva goduto di particolari attenzioni da parte del fascismo repubblicano e dell’esercito tedesco, che, in momenti diversi, avevano contrastato l’iniziativa dei partigiani con estrema durezza.
A partire dalla primavera del 1944, molte circostanze, in Italia e in Europa, avevano alimentato la speranza della fine della guerra o, comunque, della liberazione dei territori della penisola. Il generale britannico Harold Alexander, capo del corpo di spedizione alleato sbarcato in Sicilia l’anno precedente e che ad agosto avrebbe lanciato l’offensiva contro la Linea gotica, il 6 giugno si rivolse ai «patrioti italiani dell’Italia occupata», invitandoli a «insorgere compatti contro il comune nemico». Lo stesso Comando generale del Corpo volontari della libertà, costituito dal Cln all’inizio di giugno, sollecitò le formazioni partigiane ad estendere «le zone controllate stabilmente dalle formazioni patriottiche e la vera e propria occupazione in zone determinate di paesi e di intere vallate».
E questo avvenne, appunto, in Val d’Ossola, ad opera, soprattutto, della brigata «Valdossola», guidata da Dionigi Superti, della brigata «Valtoce», guidata da Alfredo Di Dio, e dalla brigata «Piave», in cui militava Armando Calzavara, che vi era confluito con la sua brigata «Cesare Battisti».
Una volta diventata “zona libera”, a Domodossola, come si sa, si insediò una Giunta provvisoria di governo, presieduta dal medico socialista Ettore Tibaldi, richiamato dalla Svizzera, dove aveva trovato rifugio (era stato il promotore dell’occupazione di Villadossola nel novembre del 1943). Affiancarono Tibaldi figure di primo della Resistenza e della futura Italia liberata, cui furono delegate le diverse funzioni di governo. Insomma, un primo esercizio di democrazia, un primo esperimento di quelle che sarebbero state, a liberazione avvenuta, le prime giunte ciellenistiche. Il clima, nel capoluogo piemontese, era di esaltazione e di euforia. Lo hanno testimoniato nei loro ricordi Gianfranco Contini e Franco Fortini. La stampa svizzera seguì con interesse ciò che era accaduto e, tra i giornali d’oltreconfine, soprattutto il socialista «Libera Stampa», con suoi servizi particolari.
Come andò a finire, si sa. Circa 5mila uomini, tedeschi e italiani, divisi in cinque colonne, al comando del tenente colonnello Ludwig Buch, comandante del 15° reggimento di polizia delle SS, costrinsero i partigiani e una buona parte della popolazione delle valli, a ritirarsi e, nella maggior parte, a cercare rifugio in Svizzera (probabilmente più di 30mila varcarono il confine).
Il «Corriere della Sera» raccontò trionfalmente la fine di quella esperienza. In prima pagina. Alcuni articoli firmati da Mario Sanvito e pubblicati nel mese di ottobre, salutarono il ritorno del tricolore della “Repubblica” (quella Sociale Italiana) a Domodossola e della sconfitta dei «banditi» e dei «fuori-legge». Sanvito celebrò la conclusione dei Trentaquattro giorni di “tirannia” democratica, come recitava il titolo del suo pezzo, pur dovendo riportare che l’arrivo dei partigiani era stato salutato da manifestazioni di giubilo da parte della popolazione, mentre quando in città le truppe italo-germaniche giunsero il 14 ottobre, non trovarono quasi nessuno: strade deserte e negozi chiusi.
Mario Sanvito, nato a Milano nel 1907, aveva esordito come giornalista nel 1929 al «Popolo di Pavia». Tra le sue pubblicazioni figura anche il volume, del 1932, Il diavolo rosso a Varese, dedicato all’avventura garibaldina nella città delle Prealpi. Al «Corriere» arrivò nel gennaio del 1944 e alla fine di quello stesso anno fu eletto nel direttorio del Sindacato giornalisti della Repubblica sociale italiana.
Quando finì la guerra, qualcuno si ricordò dei suoi articoli sulla Repubblica dell’Ossola, dei toni sprezzanti utilizzati, della sua penna messa al servizio di fascisti e tedeschi. Fu condannato dalla I sezione della Corte d’Assise straordinaria di Milano per aver collaborato con l’occupante tedesco in qualità di giornalista del «Corriere della Sera», da cui fu “epurato”, uscendone definitivamente nel febbraio del 1947. Continuò a scrivere. Ma si occupò di sport e, prevalentemente, di pugilato, per la «Gazzetta dello Sport». Alla boxe dedicò anche una iniziativa editoriale, fondando nel 1956 e dirigendo il periodico «Pugilato». Morì a Runo, una frazione di Dumenza, dove si era trasferito, il 26 dicembre del 1964.
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