Siamo messi male, qui in Lombardia. Angoscia, incertezza, pessimismo. I numeri della pandemia che crescono, la confusione nel difendersene che resta al top. Succede l’inimmaginabile. Ti fissano un appuntamento per il vaccino, poi arriva un sms a disdirlo. S’attendono x persone in un centro attrezzato alla bisogna e se ne presentano quattro-cinque volte di meno perché le convocazioni vanno in tilt. Oppure accade il contrario, come a Niguarda giovedì scorso. Si pensa -seguendo l’esempio di Como- d’allertare con una telefonata a casa gli ultra ottantenni, così da velocizzarne la chiamata, ma la semplice scelta diventa una tignosa complicazione. Naturalmente zero informazioni dai medici di base: non per loro ignavia, ma perché han nulla di certo da comunicare. Aspettano di sapere. Doveva esserci la svolta informatico-efficientista, con la nuova assessora manager al posto del silurato predecessore. Niente di che. Arranchiamo, come e peggio di prima.
È pur vero che siamo i più conciati d’Italia, da un anno a questa parte. È pur vero che son state prese decisioni ad hoc, come l’immunizzazione di massa a Viggiù e l’accordo con le aziende per ‘punturizzare’ in loco i dipendenti. È pur vero che molti livelli istituzionali del Paese non possono (altroché) dirsi esenti da colpe. Ma qui, nella terra dell’eccellenza sanitaria e imprenditoriale, ci si aspettava una ben diversa risposta. La Lombardia avrebbe dovuto guidare il treno delle regioni, invece ne sembra l’ultima carrozza, gravata d’un carico d’indecisioni contemporanee e balbettii pregressi. Tipo: l’assenza d’un piano anti-epidemia, lo smantellamento dei dipartimenti di prevenzione territoriale, il caos nell’acquisto delle mascherine, lo sbraco della campagna antinfluenzale, gli errori nel comunicare i contagiati. Eccetera. Si son sempre vantati, gli amministratori, d’essere sul virtuoso piano di quelli della Baviera, pianificazione militare e autorevolezza operativa. Non è stato così. Continua a non essere così.
E’ una catena di default. Che duole ancor di più perché fa a pugni con la qualità d’alcuni reparti ospedalieri, di eccezionali centri di ricerca, di ‘commandos’ medico-infermieristici invidiatici dal resto del mondo. Lo dimostra l’ultimo risultato: l’identificazione d’un rarissimo ceppo di Covid, la variante detta thailandese, nel laboratorio di microbiologia dell’Università dell’Insubria diretto dal professor Maggi. Giù il cappello. E idem all’équipe dell’infettivologo professor Grossi, un altro luminare di cui ringraziamo la sorte per avercene fatto dono.
Ma è di questi leader, di queste squadre, di questa competenza, di questo lignaggio professionale che manca la politica. Come sempre, è prima di tutto una questione di persone. Purtroppo non ci sono quelle giuste al posto giusto, e nella circostanza drammatica stiamo pagando la superficialità di scelta della classe dirigente che abita Palazzo Lombardia. Se fosse possibile, andrebbe cambiata in blocco. Non essendolo, serva almeno da lezione, lo spettacolo imbarazzante cui stiamo assistendo dal marzo dell’anno scorso. Invece delle litanie ‘colpa mia, colpa tua, ‘abbiamo le mani legate’, ‘Milano fa, Roma disfa’ et similia, s’intoni l’unica improntata all’onestà intellettuale: il mea culpa. E nell’attesa di voltare pagina, si svolti nel pragmatismo operativo sui vaccini. Quando il cronoprogramma, dopo cinque vax-plan presentati? Quando il cambio del sistema di prenotazione? Quando il raggiungimento del livello di regioni più capaci? Quando, quando, quando?
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