In una Vorlesung über die Aesthetic del 1818 a Berlino G. W. F. Hegel trovava l’esempio in Bach di come “melodie diverse possano essere armonicamente compenetrate ed elaborate…il cammino si spezza in diversi rivoli divergenti gli uni dagli altri, che sembrano coesistere e intrecciarsi automaticamente, ma conservano una essenziale relazione armonica tra loro”, così da permettere all’arditezza della composizione musicale di “ volgersi ai contrasti, facendo appello a tutte le più forti contraddizioni e dissonanze, mostrando la propria forza”. Si trattava per Hegel di una grandiosa genialità, autenticamente protestante, vigorosa, eppure, per così, dire, erudita, d’unione del senso religioso con la consistenza e ricchezza musicale. Mentre per Beethoven il lavoro di alcune composizioni protratto lungo diversi anni le fa definire “finite” una volta stampate, per Bach è il risultato chiaro e definito di un travaglio compositivo complesso, le cui fasi, a volte tormentate, restano ampiamente documentate. La sua partitura sgorga da un lavoro tutto interno, che non denuncia tracce di lotta e fatica, ma diventa base di partenza per la metamorfosi delle modifiche e trasmigrazioni. Le partiture di Beethoven sono precedute da un fitto lavoro di abbozzi o di tentativi intorno alle idee fondamentali. In Bach il dialogo interno tra fantasia e ragione, il rapporto di invenzione e critica ordinatrice sembra piano e lineare, in Beethoven il dialogo diventa opposizione e dramma.
La Passio secundum Matthaeum, attribuita da tanta parte della critica al 1729 (anno della replica alla Thomaskirche), va sicuramente retrodatata al 1727. È l’opera di chiesa più intensamente e strenuamente originale che Bach abbia compiuto. Appena ha capito non solo di dovere svecchiare, ma reinventare le vecchie forme della Chiesa, Bach si volge alla cantata e alla Passione e la Passione secondo Matteo è il culmine di questo sforzo, ma anche l’esaustione. Certo l’effetto dell’esecuzione fu molto al disotto delle legittime aspettative di Bach. Il 1727 è l’anno in cui si rende evidente che la cantata ha cessato di costituire per lui il lavoro principale, è quasi spoglio di cantate. 78 sono i numeri della Passio. Tolti i pezzi sul testo evangelico e i semplici corali armonizzati, ne restano 28 contemplativi, i grandi cori di introduzione e conclusione, la Fantasia su Corale che chiude la prima parte, le arie con coro, le arie solistiche con e senza coro, i recitativi ariosi (dai 28 è da togliere la Fantasia O Mensch bewein, presa dalla Johannespassion). La prima versione è quella dell’11 aprile 1727, Venerdì Santo; la seconda del 30 marzo 1736, sempre di Venerdì Santo.
La Messa in si minore risulta spezzettata secondo le occasioni e smembrata nelle diverse fasi creative (due parti del 1733, Sanctus in re maggiore del 1724 e 1726, degli ultimi anni Osanna, Benedictus, Agnus Dei, Dona nobis pacem). Mai Bach la udì completa. Kyrie e Gloria figurano nell’unità liturgica latina. Il Credo o Symbolum nicenum non fu composto nel 1732, ma a fine esistenza. L’unità a posteriori è il segno di una irrefrenabile capacità aggregativa tipica dell’arte barocca. Tra il 1747 e il 1749 s’ebbe la riunione con le altre parti di circa dieci diverse provenienze. Per una valutazione complessiva va detto che il moto vorticoso e violento, la moltiplicazione esplosiva dei passi e dei metri, la multilateralità prospettica, la turbolenza delle voci che si accavalla e si incrocia, degli affetti e delle espressioni, offrono un’esibizione di forza indomita; il suo è un plasmare e rifondere le ere trapassate. Per Furtwängler Bach e Beethoven vanno interpretati come princípi e non come mondi conclusi e insuperabili. L’immenso poema, racchiuso entro due valve colossali di coro e orchestra, aduna le incommensurabili lontananze dell’epos antico e le più aggiornate esperienze in una sintesi allora sconcertante.
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