Doveva essere il Festival della Rinascita, diciamo che è stato il Festival della Transumanza: dall’emergenza a… non si sa ancora a cosa, ma tant’è. Il Sanremo n.71, firmato e condotto da Amadeus e Fiorello, ha avuto il pregio di ricordare alcune cose sull’importanza dello spettacolo.
La prima è che il pubblico non è affatto un elemento decorativo, come forse siamo stati abituati a pensare da una certa cultura televisiva per la quale gli applausi scattano a comando prima di andare in pubblicità. Il pubblico è la benzina che fa divampare l’incendio comico, è la tensione che spezza il fiato degli artisti sul palco e li spinge a dare il meglio di sé o li sospinge nel baratro, è la sottolineatura emotiva di uno spettacolo che deve accelerare e rallentare non solo ubbidendo alle fredde scalette dei tecnici, ma seguendo il respiro dello spettatore, è persino un elemento che riempie lo spazio e consente a chi canta – visto che siamo a Sanremo – di avere un ritorno audio migliore e dunque, di esibirsi al meglio. Nonostante gli sforzi, al festival è mancato il pubblico, anche quello azzimato, rigido, impettito che tradizionalmente riempie l’Ariston.
La seconda cosa che ha insegnato questo Festival è che, nel coro di sdegno dei leoni da tastiera sempre pronti a criticare Sanremo, armato quest’anno della tesi, vagamente populista, che nell’anno della pandemia non ci fosse spazio per un programma di intrattenimento potente (e dunque anche costoso), lo spettacolo leggero conserva un grande valore. Un valore persino superiore al prezzo economico che si paga per produrlo (anche se spesso si finge di non sapere che Sanremo si ripaga ampiamente con gli sponsor). La distrazione che mamma Rai offre per queste cinque sere della kermesse è a costo zero per i contribuenti, tanto per coloro che si divertono a seguirlo (e sono molti milioni) che per quelli che fanno altro (e sembrano essere molti milioni anche quelli che dicono di non guardarlo, ma poi lo criticano mostrandosene molto ben informati).
Un festival difficile, quello del 2021, e per molte ragioni. Certo, sono lontani gli anni in cui le tensioni sanremesi erano tutte e solo per le contestazioni al comico di turno, che magari aveva preannunciato un monologo di satira politica attirandosi gli strali dei corifei, in sala e sulle colonne dei giornali di regime; quello di quest’anno ha dovuto farsi largo tra insidie non meno spinose.
Della mancanza di pubblico abbiamo detto, del protocollo anti-contagio diciamo ora: il distanziamento tra persone (ancorché ossessivamente e compulsivamente tamponate) ha spezzato il filo della liturgia, vuoi che fosse un mazzo di fiori offerto alla cantante di turno, per il quale si è dovuto usare un carrellino sanificato per evitare di far passare il bouquet di mano in mano, oppure il provvidenziale braccio che non si è potuto offrire alla primadonna in procinto di ruzzolare dalle scale della scena. Non è un caso che le gag più divertenti siano state quelle più fisiche, che i due mattatori Amadeus e Fiorello si sono potuti concedere non già soltanto in forza della loro antica intesa amicale, ma in ragione della propria controllatissima cartella clinica, senza ombre di contagio.
Nella splendida scena spaziale disegnata per il Festival dal maestro Gaetano Castelli con la figlia, una delle migliori dell’ultimo ventennio, si sono succedute quest’anno decine e decine di canzoni e interpreti riempiendo un lungo spazio tra la prima serata e la notte fonda, talvolta quasi il primo mattino: questo è un aspetto decisamente da migliorare, in chiave di rispetto del telespettatore. Assente la quota stranieri, tenuti alla larga dai patri confini, si è dovuto giocoforza valorizzare il parterre italiano, e la sorte ha consentito anche delle buone pescate dal mazzo degli imprevisti, come la scelta di convocare in riviera, in sostituzione di Naomi Campbell, la giovanissima Matilda De Angelis, un’attrice bella e molto brava, che sta facendo faville all’estero e in Italia praticamente nessuno la conosce. Sanremo le ha fatto una buona pubblicità. Così come ha fatto giusta pubblicità a buone cause che non godono normalmente di grande visibilità, come l’appello per la liberazione di Patrick Zaki, ingiustamente detenuto in Egitto, o il messaggio contro la violenza sulle donne, portato in scena da Loredana Berte con un paio di scarpe rosse.
Amadeus ha aperto questa edizione spiegando di aver accettato questo lavoro per “rispetto del paese reale che sta cercando di ritrovarsi”. Un’impegnativa petizione di principio, non c’è che dire… più modestamente, noi possiamo osservare che il paese reale in questo momento sta cercando solo un vaccino con il quale tentare di tornare a una parvenza di normalità sociale, ma certamente lo sforzo produttivo fatto con Sanremo consegna all’Italia l’esempio di un “saper fare” che vince le difficoltà e porta a casa il risultato: nelle sette note come nelle calamità, il carattere degli italiani si esalta nelle avversità. In fondo, si dice anche che da sempre il Festival sia lo specchio del paese e laddove in Italia c’è un commissario straordinario per ogni evento, in riviera la figura del Direttore Artistico esiste da cinquant’anni. Mica scemi questi guitti dello spettacolo…
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