Un vecchio proverbio dice che chi semina vento raccoglie tempesta e il leader di Iv Matteo Renzi, irrefrenabile ariete della caduta del governo Conte2, conferma che la saggezza popolare difficilmente sbaglia. Più che tempesta, si potrebbe anzi parlare di “tornado del deserto” poiché l’accusa che rischia di travolgerlo soffia dalle dune dell’Arabia Saudita. A Riad, la Davos mediorientale, il senatore di Rignano intervistò a fine gennaio, adeguatamente retribuito, l’erede al trono Mohammed bin Salman chiamandolo “amico mio e grande principe” e parlando di “rinascimento saudita” in un Paese accusato di violare i diritti umani.
“Essere qui è un onore” aggiunse e, non sembrandogli abbastanza per un membro del Board della Future Investment Institute controllato dal rampollo della famiglia reale, si disse “invidioso del vostro costo del lavoro” riferendosi evidentemente ai problemi sindacali del nostro. Frasi incaute se a pronunciarle è un senatore della Repubblica italiana e membro della Commissione Difesa. Figuriamoci dopo la diffusione del rapporto della Cia, secretato da Trump e reso noto nei giorni scorsi dal presidente Biden, che collega il principe saudita all’atroce omicidio del giornalista dissidente del Washington Post, Jamal Khashoggi, ucciso e fatto a pezzi nell’ambasciata saudita a Istanbul nel 2018.
Renzi non era in visita di Stato. Pronunciò quelle frasi – ed è forse anche peggio – nel corso di una privata prestazione a pagamento (riceve 80 mila euro l’anno dal fondo saudita). Un pasticcio etico, se non un vero e proprio conflitto d’interessi, che ora rischia di diventare un problema di Stato. Pd, M5s, Leu e Fratelli d’Italia gli hanno chiesto conto dei soldi presi da un Paese retto da un regime dittatoriale e lui ha replicato: “Pago le tasse in Italia sui compensi presi per le conferenze. Non ho mai ricevuto finanziamenti stranieri per Italia viva. È giusto avere rapporti con l’Arabia Saudita che è un baluardo contro l’estremismo islamico e un alleato dell’Occidente”.
Ma gli attacchi non si placano e la polemica sale d’intensità. L’ex premier ha provato a correre ai ripari auto-intervistandosi sulla propria pagina web con indulgenza ma la “frittata” saudita rischia davvero di bruciarlo. Alzano la voce perfino i suoi ex ministri e comincia a profilarsi lo spettro d’una sorta di “impeachment”. Per Carlo Calenda “in nessuna parte del mondo esiste un leader di partito, eletto e pagato dai cittadini, che prenda un compenso da un regime straniero autocratico”. Andrea Romano della base riformista del Pd gli rimprovera di elevare l’Arabia Saudita ad esempio di civiltà, proprio come Salvini faceva fino all’altro ieri con Putin.
Giorgia Meloni, leader dei Fratelli d’Italia, critica gli elogi che l’ex sindaco di Firenze ha fatto al principe sospettato di essere il mandante dell’omicidio Khashoggi. Alessandro Di Battista, anima ribelle del M5s, da pochi giorni dimissionario, pubblica un lungo atto d’accusa in cui chiede le dimissioni di Renzi da senatore della Repubblica. E Carlo Cottarelli, neo consulente del governo Draghi, reclama una regolamentazione della materia: “Al di là dell’errore fatto dall’ex premier – dice – dovrebbe essere vietato a un parlamentare ricevere compensi per altre attività lavorative. I parlamentari devono lavorare a tempo pieno per il Paese. Sono pagati per questo”.
Anche le toghe puntano i piedi. La rivista trimestrale di Magistratura democratica, Questione Giustizia, pubblica un articolo sarcasticamente intitolato “Legittimare un deposta per un piatto di lenticchie” e spara ad alzo zero: “Si è assistito a una svendita a prezzi di saldo non dell’immagine di Matteo Renzi ma di quella del nostro Paese, messo in evidente imbarazzo dalla sconcertante performance televisiva di un suo esponente politico di primo piano”. In definitiva, le troppe luci della ribalta accese su Renzi nei giorni delle critiche all’ex premier, quando monopolizzò i media con ore d’interviste, gli si sono ribaltate contro illuminando ciò che era meglio (per lui) restasse nell’ombra.
La lezione è chiara. Quando un politico parla in pubblico, all’estero, con il ministro di un governo straniero, non può farlo a titolo personale. Rappresenta l’Italia. Parla a nome di tutti gli italiani. Non tenerne conto non è solo eticamente discutibile, ma potenzialmente pericoloso e autolesionistico.
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