Marco Panza è nato a Varese nel 1958. Ha studiato a Milano e Parigi e insegnato e fatto ricerca a Ginevra, Nantes, Città del Messico, Barcellona, Parigi e Orange County (California) dove attualmente è docente di storia e filosofia della matematica e della logica. Prima di dedicarsi agli studi ha militato nel PCI, svolgendo ruoli dirigenti nella Gioventù comunista a livello provinciale e regionale.
Buona parte dei cittadini americani sono tuttora convinti che Trump sia stato un buon Presidente. Alcuni pensano sia stato ottimo. Molti hanno cambiato opinione solo dopo lo scellerato attacco al Campidoglio di metà gennaio. La grande maggioranza, quasi la totalità delle persone che frequento, così come, credo, la grande maggioranza dei lettori di RMFonline non la pensa affatto così: pensa al contrario che Trump sia stato un pessimo Presidente, forse il peggiore della storia americana. Vale allora la pena di domandarsi perché lo sia stato, se lo è stato, come anch’io penso.
La sua gestione della pandemia non è stata certo esemplare. Ma non credo che il giudizio negativo possa dipendere essenzialmente da questo. Molti diranno che la sua politica interna è stata scellerata, ma lo è stata più nei proclami, o perfino nei toni, che nella pratica: da una parte la congiuntura favorevole ha permesso, prima dell’avvento della pandemia, all’economia americana di crescere in modo sostanziale, e non si può dire che la gestione di Trump abbia ostacolato questa crescita. Essa non ha certo favorito la popolazione più debole, povera, e emarginata, ma sarebbe sbagliato dire che l’azione di Trump abbia di fatto reso peggiori le condizioni materiali di vita di questa larga parte del popolo americano. Molte delle sue politiche avrebbero senz’altro condotto a questo, soprattutto per gli strati più emarginarti, fatti di minoranze etniche e immigrati irregolari (anche se spesso integrati), ma la struttura della democrazia americana si è dimostrata abbastanza salda nell’impedirlo; il suo sistema di distribuzione di poteri ha permesso di contrastare efficacemente queste politiche. Il ceto medio, soprattutto rurale e di pelle bianca, ha in larga parte visto in Trump un salvatore, piuttosto che un nemico. La politica internazionale non ha certo favorito pace e distensione nel mondo, ma ha pesato negativamente molto più sui paesi terzi, che sugli Stati Uniti stessi, e molti, in patria, hanno salutato questa politica come un tentativo di ridare centralità al loro paese, piuttosto che come un colpo alla sua leadership democratica internazionale. E si potrebbe continuare: non certo nel tessere le lodi di Trump, ma nell’osservare come gli effetti materiali della sua presidenza siano stati di fatto meno deleteri di quanto si sarebbe potuto paventare, e di quanto i suoi antagonisti abbiano affermato e affermino.
Ma allora perché, noi che la pensiamo così, siamo giustificati a ritenere che sia stato davvero un pessimo Presidente? Molti risponderebbero con argomenti ideologici, molti ancora (gli stessi o altri) sottolineerebbero la sua bassissima caratura intellettuale, il suo imbarazzante difetto di cultura (chiamiamolo così…), perfino la sua poca o nulla educazione civile. Non amo l’ideologia, da qualsiasi parte essa provenga: ho imparato a detestatala leggendo Karl Marx, da ragazzino, e poi anche Gramsci, Max Weber, Croce, Popper, e molti altri che la mia professione di filosofo mi ha portato a leggere e cercare di capire. Vorrei quindi evitare i primi argomenti. E non vorrei neppure insistere sui secondi, che riguardano più la sua immagine personale che la sua azione di governo.
Ma allora perché? Vorrei avanzare due risposte (anche se certamente ve ne sono altre che lascio indicare a chi vorrà farlo).
La prima è chiara a tutti, e non vorrei insistervi troppo: il suo linguaggio politico, la retorica che lo ha infarcito, la strategia comunicativa corrispondente, hanno contribuito a dividere il popolo americano e a opporre le une alle altre diverse comunità politiche, civili, etniche, sociali, diversi genieri sessuali, tradizionali o meno, e perfino diverse sensibilità culturali. Questo è il contrario di quelli che un Presidente, negli USA, o in ogni altro paese del mondo, dovrebbe fare, anzi è tenuto a fare.
Le conseguenze di questa divisione, realizzatasi a vari livelli, sono state, sono, e soprattutto saranno oltremodo deleterie. La seconda ragione, forse un po’ meno ovvia della prima, deriva da qui, ed è quindi in gran parte dipendente dalla prima. Questo clima di divisone ha lacerato il tessuto politico dei due grandi partiti americani. Non ha solo trasformato il liberalismo e conservatorismo economico repubblicano in qualcosa di molto peggio di quello che è stato tradizionalmente, mettendo l’intero partito alla mercé del populismo e perfino di politiche discriminatorie, e facendo crescere in esso la speranza che la forza della stessa retorica del leader, e perfino di molte delle sue manifeste menzogne, potesse e possa, averla vinta sul partito avverso e assicurare un duratore potere. Tuttavia le conseguenze nefaste che la presidenza Trump e l’illusione della ritrovata grandezza americana, rinchiusa nel suo slogan principale—America First—, hanno prodotto sul Grand Old Party sono a mio parere di gran lunga meno deleterie di quelle che la conseguente lacerazione politica ha prodotto nel Partito Democratico.
Credo, e vivamente spero, che il Partito Repubblicano si riprenderà relativamente presto da questa sbornia. Sono molto meno ottimista per quello Democratico, che ha certo vinto le ultime elezioni, ma sta manifestando una preoccupante deriva ideologica e perfino culturale (e è stato costretto a richiamare in servizio un politico in pensione, con evidenti limiti di dinamismo: chiamiamoli così…).
La base attivista democratica, e la sua manifestazione intellettuale, in particolare nelle università, fra professori e studenti, ha ormai sposato le tesi cosiddette liberal, ma nella sostanza, molto spesso profondamente antilibertarie (soprattutto a riguardo della libertà di espressione e di pensiero). Si tratta di tesi che possono, non dico essere giustificate, ma essere almeno comprese nel loro aberrante contenuto, soltanto facendo astrazione da ogni senso della storia, che in USA è perlomeno infrequente, ovvero proiettando la storia del mondo, della cultura e della scienza sul presente, e, per di più, su un presente privo di cultura e di senso critico.
Potrei fare vari esempi. Ne basteranno due: altri potrebbero fare oggetto di un intervento ulteriore. Si chiede alle imprese private (anche non-profit, come le università) di riconoscere che il terreno che occupano è stato sottratto ai nativi e deve essere loro restituito (e quindi mantenuto soltanto sotto forma di locazione: il che pone anche il problema di sapere a chi dovrebbe essere destinatario di questa). Si legge come manifestazione intollerabile di razzismo la citazione di ogni frase che contenga una parola proibita, per esempio la “N-word”. In un mio corso su Hume ho per esempio dovuto mutilare questo passaggio di un testo originale che ho letto agli studenti:
If a man can’t have some kind of sensation because there is something wrong with his eyes, ears etc., he will never be found to have corresponding ideas. […] The same is true for someone who has never experienced an object that will give a certain kind of sensation: a Laplander or […][N-word] has no notion of the taste of wine ·because he has never had the sensation of tasting wine. (Enquiry Concerning Human Understanding, 1748, I.2)
Se non lo avessi fatto avrei rischiato una mozione chiedendo il mio licenziamento, che avrebbe messo in grave difficoltà tanto me, quanto chiunque avesse inteso difendermi… E ho comunque dovuto spiegare che ‘man’ e ‘he’ sono qui incorretti: Hume avrebbe dovuto scrivere ‘human being’ e ‘she’, naturalmente.
Se ne potrebbe ridere. Ma si sbaglierebbe. Perché questo atteggiamento avvelena ogni discussione politica, culturale e perfino scientifica, trasformando in razzisti, omofobi, eccetera. Migliaia di persone per bene che, semplicemente, non accettano di essere ipocriti. E, soprattutto, esso trasforma la politica in una arena ideologica, non solo fuorviante e dogmatica, ma anche, il che è ben peggio, ostracizzante, che mette alle berlina chi non aderisce ai valori ideologicamente difesi, facendo il più grande regalo possibile ai razzisti e omofobi veri, e, ancora più drammaticamente, se possibile, rende i riformisti incapaci di confrontarsi con problemi reali, sia sociali, che soprattutto economici, lasciando rivendicazioni e aspirazioni legittime al campo, avverso, intriso, come ho detto sopra, di populismo e, spesso, di vero razzismo e vera omofobia.
Immaginate di essere persone di colore. Non avreste piacere a essere insultati per il vostro colore, salendo su un autobus. E sarebbe odioso e ignobile farlo. Ma, essendo costretti a scegliere, preferireste che questo finisse, ma non aveste di che mangiare e vivere per voi e i vostri figli, o che questo continuasse, ma le vostre condizioni economiche migliorassero? Non è facile rispondere, certo, e dovreste volere entrambe le cose. Ma l’astrattezza ideologica dei liberal spinge molti afroamericani a propendere per la seconda opzione e a appoggiare, con il loro voto, i candidati repubblicani…
Non vedo un futuro roseo per un paese in cui la politica si è ridotta a questo…L’economia americana è ancora forte e sufficientemente elastica e libera per adattarsi a congetture difficili, politiche, congiunturali e anche e strutturali. Un bianco benestante e istruito, anche se straniero, non rischia molto, vivendo qui, se dotato di sufficiente cinismo e saldezza di nervi. Ma se le cose non cambieranno rapidamente, non sarà così ancora per molte generazioni. E, francamente, non vedo all’orizzonte nulla che possa cambiare questo stato di cose…
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