Si parla molto in questi giorni di ricostruzione e tutti sperano che accada quel che successe quasi settant’anni fa, nel secondo dopo guerra, quando il Paese seppe riprendersi in fretta dal più grande disastro della sua storia. Il successo di quella rapida rinascita sarebbe merito delle risorse messe a disposizione dagli USA col cosiddetto Piano Marshall. Un progetto elaborato da un generale dell’esercito americano, al quale qualche anno dopo fu assegnato il premio Nobel per la pace, per aver salvato gli europei dalle difficoltà, dopo il conflitto mondiale. Oggi confidiamo che accada la stessa cosa, visto che l’Europa ha stanziato, solo per l’Italia, 210 MLD di euro, attraverso un piano di recupero, il Recovery plan, da cui nasce la speranza di poter uscire presto da questa brutta situazione, semplicemente spendendo bene e presto quei danari. È proprio così?
Cosa successe davvero in quei lontani anni ‘50-‘60 del dopoguerra che dettero inizio al cosiddetto Miracolo Economico? Intanto, guardando le cose un po’ più da vicino, va detto che il Piano Marshall non fu solo un progetto di ricostruzione, nonostante si chiamasse ERP (European Recostruction Plan). Fu anche un’iniziativa politica di respiro internazionale, per saldare Europa e Stati Uniti e far fronte unico contro il blocco sovietico, in quella che verrà chiamata la Guerra fredda. In un secondo momento, quell’operazione avrebbe dovuto interessare anche il Giappone. Fu un progetto che riguardò tutto l’Occidente, con l’esclusione della Spagna perché guidata da un regime autoritario. Il Corsera dell’8 febbraio scorso (Gabbanelli, Così usammo il Piano Marshall) ha ricostruito bene questa storia. Per l’Italia furono stanziati 1,3 MLD di dollari, circa il 9,2% del PIL di allora. Fatte le debite proporzioni – sottolinea ancora l’articolo – e tenendo in considerazione il tempo trascorso, è stato stimato che quel finanziamento possa corrispondere a qualcosa come 164 MLD di euro di oggi, una cifra non troppo distante da quella stanziata ora dall’Europa, con i famosi 210 MLD.
Son cifre importanti, ma non tali da poter dire che quel progetto fu la soluzione di tutti i nostri guai, anche se probabilmente ne fu l’innesco. Il motore vero fu soprattutto l’iniziativa privata, grande e piccola, che si espresse in diversi modi e a diversi livelli. Il fenomeno più eclatante fu senza dubbio la ripresa dell’attività edilizia. Nei vent’anni che vanno dal ‘47 al ‘67, furono costruiti ben 22 milioni di vani. Per capire quanto grande sia stato questo fenomeno, basti ricordare che il piano d’intervento l’INA-Casa di quegli stessi anni (1949-1963) per l’edilizia pubblica, per l’intero territorio nazionale, realizzò 2 milioni di vani, per 355.000 alloggi. Dunque, un boom edilizio che causò un vero e proprio sacco del territorio e travolse tutti gli argini, peraltro debolissimi, rappresentati da norme del tutto insufficienti a tenere sui binari giusti le trasformazioni. Deliberatamente, fu lasciato spazio ad un’espansione edilizia incontrollata, senza la minima attenzione per la salvaguardia del territorio. Anzi, quando si pensò seriamente di porre un freno a quel marasma con una legge urbanistica, emersero “trame oscure, come quella legata al generale De Lorenzo” (Taviani). Addirittura.
Fu una scelta precisa quella di lasciare libero il campo all’iniziativa privata, evitando accuratamente qualsiasi forma di programmazione. Si lasciò che “gli insediamenti produttivi si localizzassero quasi esclusivamente in aree piane già dotate di infrastrutture stradali secondo la sola logica delle scelte individuali e dei programmi aziendali, senza nessuna considerazione né per le diseconomie che uno sviluppo non programmato necessariamente comporta per la spesa pubblica, né per i costi umani e sociali indotti dalla conseguente e consistente ridistribuzione della popolazione sul territorio nazionale, e il cui disordine urbanistico a tutti i livelli costituisce la concreta rappresentazione” (Astengo, 1967). Tra la seconda metà degli anni ’50 e il ’68, 17 milioni di persone cambiarono residenza. Producendo scompensi territoriali di enormi dimensioni, tensioni sociali incontenibili e dolori umani insanabili, di cui ancora oggi stiamo pagando il conto. Perché, che lo si voglia o meno, “il liberismo in urbanistica genera periferia” (Cervellati).
Ma onestamente va detto che la ripresa passò anche da lì, da quello “sviluppo anarchico”, e dunque non ci fu solo il Piano Marshall a muovere le acque. Sarebbe fuorviante se pensassimo il contrario, perché oggi siamo in una situazione analoga ed è illusorio credere che possano essere le risorse europee, da sole, a creare le condizioni di ripartenza per un nuovo miracolo economico. Quelle risorse vanno spese bene e in fretta, come si è detto, ma bisogna anche creare da subito le condizioni per canalizzare nella maniera giusta – stavolta – la vitalità che questo paese possiede in termini d’iniziativa privata, con le risorse di cui dispone e coi progetti che la gente ha in testa, ma che non riesce a realizzare per i troppi intralci a qualsiasi iniziativa. Se ne parla da tempo di semplificare le regole, ma per ora non si è mai arrivati a nulla, se non a qualche proclama per indicare un colpevole preso a caso e lasciare che tutto rimanga immutato. Non sarebbe affatto complicato invertire la rotta, basterebbero un po’ di competenza e di determinazione, insieme alla consapevolezza che a qualcuno (parecchi) conviene questa selva di regole inutili e deleterie. Adesso, la Competenza è alla guida del Paese, speriamo gli venga consentito di lavorare per un sistema di regole chiare.
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