Ce l’ho davanti agli occhi quel palazzone, un tempo sede dell’annona pontificia, incastrato, a sinistra, tra i resti delle terme di Diocleziano divenute sede del planetario, e a destra dalla Basilica di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri. Quel palazzone ospitava negli anni ’60 la facoltà di Magistero di Roma.
Fu lì che feci un incontro molto favorevole per sviluppare in me l’attitudine a prendere “sul serio” la politica, a non considerarla una sorta di parentesi della vita cristiana.
Il mio professore di psicologia dell’età evolutiva era un francescano, cresciuto alla scuola di padre Gemelli, che un giorno mi presentò un suo collega, il prof. Adriano Ossicini: uno spilungone di uomo, smilzo, con un volto incorniciato da un paio di occhialoni. Sapevo che era cattolico, che aveva partecipato alla Resistenza e conosciuto il carcere. Con altri miei compagni, avrei dovuto collaborare con lui per uno studio sulle condizioni psico-sociali degli scolari delle scuole della periferia di Roma. Ebbi modo così di frequentare Adriano Ossicini: egli era ormai un noto psichiatra, io un giovane studentello di pedagogia; ci separavano, forse, una trentina d’anni, se non più. Durante i nostri brevi, ma frequenti incontri, venni a conoscenza che il professore, figlio di un fondatore del partito popolare, non accettò la proposta di De Gasperi di iscriversi alla Dc. La ragione era dovuta al fatto che il mio interlocutore era contrario all’unità dei cattolici in politica e per questo aveva promosso il movimento dei cattolici comunisti, a cui avevano aderito, tra gli altri, Rodano, Cinciari, Gabriele de Rosa. Nella comune lotta della Resistenza si erano unite pugnacemente le due forze popolari più consistenti: quella cattolica di vocazione moderata e quella socialcomunista di vocazione rivoluzionaria. Quella che vivevo io era la stagione in cui s’incominciava timidamente a parlare di centro-sinistra ed era naturale che le conversazioni che avevo con Ossicini vertessero su questo tema.
Nella mia impazienza giovanile, volevo approfondire con Ossicini come si potesse accordare la dottrina da cui discendeva il comunismo (l’ateismo e la lotta contro le religioni, l’odio provocato dalla rivoluzione, il collettivismo, il tentativo di disgregare gli stati non comunisti con la forza dell’aggressione militare), al fine di liberare le masse popolari e poter instaurare una società più equa e la fedeltà alla dottrina sociale della Chiesa e al programma dei cattolici intruppati nella Dc.
Ossicini mi ascoltava e, sobrio ed essenziale, rispondeva con un’altra domanda: “Perché la saldatura che era avvenuta in passato tra cattolici e liberali non poteva avvenire anche tra cattolici e marxisti?” e aggiungeva con chiarezza che in tutti i paesi che avevano conosciuto solo la rivoluzione liberale non era mai esistita una vera democrazia che promuovesse la giustizia sociale fra le classi più povere. Gli rispondevo – con un certo timore riverenziale – che notavo in lui una venatura della concezione classista della democrazia. L’ex partigiano mi replicava che gli interessi dei lavoratori e dei contadini cattolici erano gli stessi di quegli degli altri lavoratori e che lo sarebbero ancor più se i comunisti non conducessero una politica nemica della religione (“abbandonino lo scheletro dell’ateismo!”) e della libertà della Chiesa. Solo così – aggiungeva – il classismo avrebbe vinto sul fatto religioso e solo così i cattolici, mettendosi a fianco delle forze che garantivano l’uguaglianza sociale, avrebbero potuto sperare che il bagaglio di diffidenze venisse superato; come pure sarebbe cessato ogni ragione di lotta antireligiosa. Si sarebbe dimostrato così che il rischio evangelico, nemico di ogni moderatismo, sarebbe stato garanzia di maggiore giustizia sociale. Di questo impegno unitario portava come esempio la Costituzione, frutto del dialogo tra cattolici e forze socialcomuniste.
Sapeva Ossicini che io appartenevo all’Azione Cattolica (lo aveva intuito dal distintivo che portavo all’occhiello della giacca!), anzi al ramo giovanile che con la FUCI, a cui lui stesso aveva aderito in età giovanile, coltivava l’apologetica antimarxista, ma contemporaneamente si ispirava al pensiero di Maritain, al codice di Malines e di Camaldoli. Se noi giovani cattolici esprimevamo un umanesimo incompatibile con quello marxista, coltivavamo contemporaneamente la prospettiva di una possibile collaborazione con i socialcomunisti per allargare la base democratica e per dare avvio ad una politica di giustizia sociale, confortati in questo dall’elezione al soglio pontificio di Giovanni XXIII° e dalla brezza che aleggiava nella Chiesa conciliare. Proclamavamo l’unità dei cristiani nella Chiesa, ma non in un partito politico. Pochi anni prima eravamo scesi in piazza per condannare il sistema oppressivo e di sopraffazione, intollerabile e odioso, che aveva portato alla repressione dei moti democratici in Ungheria e, più tardi, in Cecoslovacchia.
Successivamente, avvennero fatti storici che portarono alla fine del comunismo: l’autocritica allo stalinismo, la rivoluzione polacca, la caduta del muro di Berlino, il dissolvimento dell’impero sovietico, l’evoluzione in senso democratico dei partiti comunisti occidentali.
Cento anni fa a Livorno nasceva da una scissione del partito socialista il PCI: l’ala di sinistra, intransigente e rivoluzionaria, guidata da Gramsci, che intendeva includere, accanto al ceto borghese risorgimentale, la classe lavoratrice e il sottoproletariato per unificare finalmente l’Italia. Questa “corrente”, seppur minoritaria, al congresso socialista abbandonò il partito di Filippo Turati e fu la fine delle speranze socialiste. Gramsci guardava al futuro, Turati al passato. Restò l’ansia rivestita di giustizia, quella stessa inquietudine che avrebbe animato Adriano Ossicini e i molti socialisti, comunisti, cattolici, liberali e azionisti che combatterono per una maggiore giustizia sociale e per la libertà dal fascismo nella Resistenza.
Accanto ai misfatti e alle nefandezze compiute da alcune brigate rosse durante la Resistenza, la stella polare che guidò il cammino del comunismo – la lotta alle disuguaglianze sociali – guida tuttora la “sinistra”. Il comunismo storico è fallito. Ma la sfida che esso aveva lanciato resta. Accanto a questo ideale, la sinistra oggi opera, accanto ad altre forze, per rendere l’Europa unita nella prosperità e nella solidarietà.
Giustizia sociale ed europeismo sono due strade da continuare ad intraprendere. È questo il discrimine che distingue “destra” e “sinistra”. Oggi, nella pratica politica, europeismo e sovranismo si escludono, come un tempo si contrapponevano fascismo e comunismo. Lo dovremmo ricordare in questi aspri giorni in cui sembrano dominare i compromessi e non le mediazioni, gli interessi personali e partitici sul bene comune.
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