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Cultura

LA LINGUA BATTE

RENATA BALLERIO - 29/01/2021

cringeLeggendo i quotidiani ci si può imbattere in notiziole curiose e apparentemente interessanti soltanto per gli addetti ai lavori.

Di recente un certo scalpore è stato provocato dal fatto che una parola inglese è stata riconosciuta dall’Accademia della Crusca.

Alcuni puristi, chiamiamoli i moralisti della lingua, avranno quasi sicuramente pensato che mala tempora currunt.

La parola messa sul banco degli imputati da far temere che “brutti tempi corrono”, anzi sono già presenti, è cringe, traducibile con imbarazzante. Ad esempio, secondo un titolo de Il Fatto quotidiano questa parola è diventata italiana, proprio perché è arrivata la “certificazione” della Crusca. A dire il vero la prestigiosa accademia ha schedato la parola, indicandone l’ambito d’uso, cioè i giovani, la rete e i social media (parola inglese, a pensarci bene) e tracciandone la storia. La parola è, infatti, in voga, sul web dal 2012.

Anche se questa informazione può, a buon diritto, essere catalogata come notiziola, merita qualche riflessioncella e ulteriori precisazioni.

Sul sito della Treccani, già nell’ottobre del 2019, si può stranamente leggere che “si tratta di una parola che non ha ancora messo piede (o se l’ha fatto, ha appena intinto un alluce) nel mare ampio della lingua italiana, inclusa quella digitata in internet”.

La spiegazione diventa, invece, intrigante, quando ci ricorda che “è molto interessante il significato di cringe, perché ha diverse accezioni, a partire da quella originaria, cinquecentesca, di “piegarsi o accovacciarsi, specialmente con servilismo o paura”. Inoltre è notevole l’accezione di “provare imbarazzo per qualcun altro”.

Dunque, la parola, che si può tradurre con imbarazzante, sta suscitando, quasi per moderno contrappasso, imbarazzo.

Proprio per questo, al di là di essere una parola inglese, pare più disturbare l’uso della idea di imbarazzo, quando ogni comportamento sembra essere sdoganato e tale da non provocare senso di disagio e di vergogna.

È, invece, importante sapere – come si legge in siti che osservano l’evoluzione della lingua italiana – che è una parola notissima tra i giovani, così così ai trentenni e pressoché ignota a chi un po’ più in là con l’età.

Pur non sottovalutando il problema delle parole inglesi, che spesso frettolosamente vengono accusate di essere la causa dell’impoverimento della lingua italiana, dovremmo interrogarci di più se davvero conosciamo il mondo giovanile. Il che vuol dire capire la nostra società. O per essere più chiari comprendere prima di giudicare.

Proprio per questo è giusto ricordare una ricerca tuttora in atto a Torino, che attraverso il cambiamento del linguaggio studia il cambiamento della società.

Interessanti sono le parole con le quali la ricerca è stata presentata a gennaio alla stampa. Eccole: “per comprendere in che modo sta cambiando Torino bisogna origliare. Ascoltando le conversazioni di chi là vive, studiando le differenti risorse linguistiche dei suoi abitanti, analizzando le nuove forme di parlato, si può, infatti, capire come sta evolvendo un territorio”. E questo non vale soltanto per Torino.

L’attenzione ad una lingua sempre più ibrida, tra i giovani e non italiani, impasto di italiano a volte regionale, termini inglesi e gergali, parole derivate dall’imperante tecnologia, è una lente sulla società. Giustamente i ricercatori torinesi hanno sottolineato che il loro “intento non è stabilire se si tratti di forme di espressioni giuste o sbagliate ma mettere a disposizione della collettività una risorsa che descriva le diverse componenti della realtà urbana torinese”. Forse oltre a questo legittimo intento, dovremmo indagare su quante parole usiamo in modo anemico, poco stimolanti per un pensiero profondo. E per farlo avremmo bisogno della pantera che va a caccia per scovare nei luoghi anche più nascosti parole adeguate. Il suggerimento e l’immagine ci vengono dal padre della lingua italiana che non ebbe paura, anzi rese meraviglioso, l’uso di una lingua ibrida. Il plurilinguismo della Divina Commedia ci insegna ancora qualcosa e poco importa se allora erano le parole provenzali rispetto a quelle inglesi. Quello che conta è la consapevolezza della parola.

Non proviamo, dunque, imbarazzo per la “certificazione” di una parola inglese, ma preoccupiamoci di come usiamo la lingua. O meglio di come il potere usa la lingua. Perché non leggere un libro, non facile ma fondamentale, di Victor Klemperer? Ne La lingua del Terzo Reich – questo è il titolo – lo studioso avverte del rischio di una lingua fatta di molte, troppe sigle… Ogni riferimento ai giorni nostri non è per niente casuale. Imbarazzante, e perché no cringe, sarebbe dimenticare.

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