In tempi normali, questi ultimi giorni di gennaio – televisivamente parlando – sarebbero già votati al santo delle ugole d’oro, cioè a Sanremo (scritto tutto attaccato!) col suo festival. Sulle copertine dei giornali comincerebbero a fare capolino le facce di cantanti, divi e soubrette, la piccola cittadina rivierasca comincerebbe a popolarsi di inviati, reduci vari e il palinsesto dei primi collegamenti tv in attesa della gara, che negli ultimi anni si teneva la prima settimana di febbraio. Ma il covid ha travolto anche l’istituzione televisiva per eccellenza (forse l’ultima rimasta, insieme con la Nazionale di calcio) come tutto il resto del mondo dello spettacolo, che più di tutti (si, anche più dei ben più “visibili” ristoratori e affini!) sta pagando dazio alla pandemia, con un blocco totale delle attività iniziato con lo scorso marzo e praticamente mai più allentato, a dispetto di zone gialle, rosse o a pois. Si parla di migliaia di persone (artisti, attori, cantanti, registi, macchinisti, attrezzisti e tecnici) che sono rimasti senza lavoro e che in queste settimane guardano con interesse a quello che si deciderà sul Festival.
Si, perché farlo, con tutto il circo che la kermesse sanremese si porta dietro, sarebbe certo un bel segnale di speranza e di ripresa per tutto un mondo depresso dalla crisi, ma al tempo stesso – allo stato attuale della pandemia – sarebbe nella migliore delle ipotesi un’impresa titanica, nella peggiore un azzardo. Al momento l’evento è in cartellone la prima settimana di marzo, ma chissà.
Lo stesso direttore artistico e conduttore, Amadeus, è da settimane che rilascia interviste piene di ottimismo (della volontà) quasi ad arginare il pessimismo (della ragione) che scorre a fiumi quando si elencano le immani difficoltà realizzative. Lo stesso sindaco di Sanremo ha dichiarato che forse un rinvio del Festival al 2022 poteva essere accettabile (in fondo, non ha fatto lo stesso il Comitato Olimpico coi suoi Giochi?), mentre la Rai è stretta tra cogenti esigenze di cassa e il dovere/obbligo morale di non rischiare nulla.
Come conciliare tali opposte necessità? Se la parata di cantanti sul palco dell’Ariston in sé e per sé sarebbe pure gestibile, è tutto il resto che sembra un’erculea fatica. A cominciare dalle centinaia di giornalisti che affollano laboriosi la sala stampa di giorno e ristoranti e locali di notte, a caccia di scoop, gossip e linguine al pesto: farne a meno, come nelle edizioni buie degli anni ’70? Fare in smart-working da casa loro? Accreditare solo cronisti under 35 senza co-morbilità? Una grana difficile da risolvere, e centrale per una buona riuscita di quest’edizione numero 71.
Si sono avanzate poi proposte bizzarre a proposito del pubblico in sala (presenza ritenuta irrinunciabile dall’organizzazione), come quella di rinchiudere i gentili paganti in una bolla sanitaria su una nave da crociera ormeggiata al largo del Casinò, facendo sbarcare sulla terraferma gentiluomini in smoking e damazze in lamè giusto per il tempo dello show serale. Alla sigla di chiusura, novelli cenerentoli, eccoli tutti correre in fretta al reimbarco, per cinque, lunghissime serate. Uno spettacolo nello spettacolo insomma… Se poi consideriamo che tutti loro dovrebbero purgarsi in isolamento preventivo e scontare forse una quarantena successiva, assistere al Festival quest’anno assomiglierebbe più a una condanna penale che non a una settimana di dolce vita e mondanità.
Altra proposta che ha fatto discutere, quella di riservare le ambitissime poltrone di platea e galleria agli operatori sanitari, quelli per intenderci che sono stati già immunizzati coi primi vaccini somministrati. Un omaggio simbolico a chi ha rischiato molto negli scorsi mesi, ma forse anche qualcosa di molto poco opportuno, visto che sono ancora centinaia le persone che ogni giorno soffocano nelle terapie intensive, senza rimedio e senza il conforto di nessuno, se non quello appunto di medici e infermieri.
E poi, Sanremo è ormai da anni non più soltanto una passerella di cantanti in scena, ma piuttosto l’enorme indotto che c’è fuori dal teatro: basti pensare che solo il grande palco all’aperto, che da qualche anno viene allestito nella vicina piazza Colombo, rende a Mamma Rai qualcosa come dieci milioni di euro pagati dallo sponsor: quest’anno però non si possono stipare ai suoi piedi migliaia di fan di questo o quell’artista, così come sarebbero considerati peggio di pericolosi untori tutti i cacciatori di selfie, collezionisti di autografi, ragazzine urlanti per il super-ospite di turno e via discorrendo.
Doveva essere il Festival della rinascita, come lo battezzò Amadeus all’atto di accettazione di una seconda conduzione in riviera, mesi e mesi fa, ma alla fine questa edizione sarà quella della conferma: la conferma che in Italia la confusione è grande sotto questo cielo. Speriamo che come sempre, ad aiutarci ci pensi il nostro proverbiale “stellone”, che per l’occasione avrà forse la faccia barbuta e lo sguardo comprensivo di San Romolo, il patrono di Sanremo.
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