Lo scorso martedì, era il 19 gennaio, Liliana Segre, cittadina onoraria di Varese, ha preso un treno per Roma. Non uno qualsiasi, ma un treno del destino, come è accaduto nella sua esistenza altre volte. A tre anni esatti dalla sua elezione a senatrice a vita-il 19 gennaio del 2018, coincidenza ha voluto- si è trovata nella capitale per votare la fiducia al governo in carica, messo in crisi dall’alleato Italia Viva. Una decisione motivata, ha detto, da indignazione civile e senso del dovere, seppur sconsigliata dal suo medico. Perché una novantenne in viaggio in tempo di Covid è a rischio. Come lo è partecipare poi alla seduta in Senato, in un consesso di centinaia di persone. La senatrice Segre ha tuttavia fatto la sua scelta: quella del coraggio civile. Dando un esempio forte.
E ha preso quel treno non sicuro. Che, probabilmente, gliene ha ricordati altri, ben più pericolosi, soprattutto uno. Dove si era trovata rinchiusa non per motivi di svago e viaggio ma per una perfida costrizione, dettata dal male dei tempi.
La carrozza in cui era stata imprigionata, partita dal famigerato binario 21 della stazione centrale di Milano nel ‘43, portava una giovane tredicenne e suo padre, colpevoli di essere ebrei, verso la efferata prigionia, e la morte di lui, nel campo di Auschwitz. Uscivano dal carcere di San Vittore e da quello varesino dei Miogni, dove erano sati rinchiusi per 46 giorni, dopo l’arresto a Viggiù e il precedente rifiuto della Svizzera che non li aveva voluti accogliere.
Il treno per Roma è stato dunque per Liliana Segre, nonostante la difficoltà degli anni e il timore di ammalarsi, un viaggio di orgoglio e soddisfazione. Perché correva sul binario della libertà e della democrazia. Lo avrà certo pensato, la senatrice Segre, come alla fine tutto torna. Se il destino riporta la ragazzina sopravvissuta all’Olocausto ad essere protagonista in positivo di quella stessa storia che l’aveva schiacciata da subito, come un fiore calpestato prima di sbocciare.
Entrata a Palazzo Madama durante il discorso di Casini, che ne ha sottolineata con rispetto la presenza, la senatrice è stata accompagnata al suo scranno dagli applausi e sostenuta dalla solidarietà di alcuni esponenti dello stesso Senato. E ha avuto il garbato grazie della collega Maiorino che ha elogiato il coraggio di chi “ha anteposto la salvezza del Paese alla propria incolumità”.
Ha raccolto peraltro, più tardi, anche le riprovevoli rimostranze di altri, come La Russa e Salvini. Hanno avuto il cattivo gusto di demonizzarne la presenza, e quella degli altri due senatori a vita votanti, col lapidario commento: bisognerebbe eliminarne la nomina. Ignorando l’esempio di democrazia incarnato da chi è eletto non dall’urna, ma in quanto scelto dal Capo dello Stato, come previsto dalla Costituzione, per gli alti meriti personali. Volti per di più, nel caso di Liliana Segre, a testimoniare la tragedia e l’universale dolore dell’Olocausto.
Se è tempo di costruttori e di coraggio, come ha commentato la pentastellata Alessandra Maiorino, che ha citato Montale e la sua poesia Limoni e “L’anello che non tiene” – quello che fa pensare e disturba disvelando la verità – allora dobbiamo dire che il primo mattone della costruzione l’ha senza dubbio posto la novantenne senatrice dai capelli bianchi.
Molto più costruttiva certo la sua presenza di quella delle due ministre renziane, lasciatesi calciare in corner, per ragioni tattiche, dal loro mister. O di quella di Bonino, che, mentre bocciava il governo, ha visto in Renzi un Gianburrasca.
A noi, che da Renzi ci sentiamo delusi, più che la simpatica e innocente creatura di Svampa, viene in mente quella di Pinocchio nel Campo dei Miracoli.
Situato, nella geografia del toscano Collodi, nei pressi della città Acchiappa–Citrulli, nel paese dei Barbagianni.
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