Dopo la seduta del Senato dedicata al voto di fiducia, dopo tutto ciò che l’ha preceduta, dopo tutto ciò che si è scritto, dopo i commenti del dopo, a Porta a Porta e dopo Porta a Porta, proprio non me la sento di commentare, scrivere o parlare. Nemmeno di suonare un campanello. Non vorrei avere la tromba più squillante, la voce di Pavarotti, il campanon del Dom, il rombo del cannon: non perché non basterebbero (e non basterebbero davvero a soverchiare l’insulso chiacchiericcio degli interpreti di questa farsa) ma solo perché il miglior commento è il silenzio. Amiche e amici che leggerete sabato queste righe, magari allora avrete capito tutto; qualcuno vi avrà spiegato, vi avrà convinte e convinti, oppure come al Var del rigore ciascuno resterà convinto del proprio giudizio, anche dopo aver rivisto il video dell’assemblea senatoriale.
L’unico commento possibile è il silenzio. Non quello del no comment (chi lo ha inventato? Montanelli lo avrebbe attribuito sicuramente a Churchill, come tanti detti astrusi che invece erano suoi); ma proprio quel tipo di silenzio che non è nemmeno il rifiuto della parola. È la premessa della parola, l’assenza che rende possibile la Presenza, l’ex nihilo che viene prima della Creazione e di ogni creazione.
Si chiama Parlamento, ma dovrebbe esserci un modo per ricordare a chi ne fa parte, a chi ne rilancia le parole, i suoni, i contenuti, che ogni messaggio dovrebbe essere preceduto accompagnato e seguito da quel silenzio che rende possibile l’ascolto.
Questa notte di martedì 19 gennaio in cui scrivo, dopo aver invano tentato di ascoltare, dopo aver pregato anche Desti e Conformi di rispettare il silenzio, non farò nient’altro che l’apologia del silenzio.
Nemmeno in altri tempi, che alcuni definiscono migliori, il Parlamento brillò per capacità di evocare questo tipo di silenzio, l’attenzione che prepara e realizza l’ascolto. Ricordo solo qualche episodio, qualche raro momento.
Nel 1976 all’inizio della legislatura l’elezione del comunista Ingrao a Presidente della Camera anche con i voti dei democristiani e al Senato del democristiano Fanfani con i voti dei comunisti, viatico silenzioso alla creazione del ‘governo di solidarietà nazionale’ o ‘della non sfiducia’, una forma di silenzio di forze politiche che, benché fortemente e motivatamente avverse, seppero davvero guardare alle superiori necessità della Nazione. A chi volesse giustificare con quel precedente l’attuale espediente politico, sono costretto a far notare che invece ne è l’esatto contrario, negli scopi e nello stile.
Un altro esempio. Nel marzo 1978, la notizia del rapimento di Moro e cinquanta giorni dopo quella della sua morte: due minuscole isole di silenzio nel caos delle interpretazioni e delle accuse reciproche. Poi, non ricordo nulla di significativo, fino al Venerdì Santo di Papa Francesco, nel silenzio, non nel deserto, di piazza San Pietro. Silenzio, non deserto, ricco di una Presenza di domanda e di ascolto.
Ma cos’è questo silenzio? L’irraggiungibile al di là della siepe dell’essere? “sovrumani Silenzi, e profondissima quïete” o solo il “Silenzio fuori ordinanza”, suonato magari in teatro e non davanti a Redipuglia o al Milite Ignoto. Il comando della maestra alla classe vociante o il frusciare del vento e lo scalpiccio dei passi nel chiostro benedettino che si fanno già preghiera fin dall’affrettarsi verso la cappella?
Se non avessi ridotto al silenzio l’amico Conformi, certo ora mi ricorderebbe che il silenzio perfetto non esiste, che anche il bel silenzio, quell’d’oro, nasce come contrasto tra due suoni, come la pausa che crea armonia nella musica, come lo sguardo di un padre (pardon, genitore1) sopisce una discussione dei figli nel mezzo del pranzo.
Conformi ha ragione: non è una assenza di rumore, come lo definisce la legge della “Zona del silenzio”, è il frammento infinitamente piccolo d’eternità che necessita del suo contrario, il tempo-rumore per definirsi ed apparire anche a noi creature.
Capiamo quindi che non sono tempi, questi, favorevoli al silenzio. Il suo solo approssimarsi ci fa sentire un po’ straniti, come nelle foto delle strade di città in momenti di lockdown serio o nelle piazze metafisiche di De Chirico. Anche “Stille Nacht”, la Notte Silente che da duecento anni accompagna i nostri Natali con la dolcezza di una musica popolare, riconosciuta Patrimonio immateriale dell’Umanità, ha perso, nella versione italiana, sia il silenzio sia la notte, diventando “Astro del ciel”.
Ma basta parole, facciamo silenzio. Ricordiamo solo Shakespeare, che chiude la tragedia di “Amleto”, dove si narrano i contrasti umani e l’incomprensibilità del destino con i toni più alti, mettendo in bocca al protagonista queste parole: “Oh, io muoio, Orazio: il potente veleno vince tutte le mie facoltà, né tanta vita pur mi rimane da poter udire le nuove d’Inghilterra… ma prevedo che l’elezione cadrà su Fortebraccio… egli ha il mio voto moribondo… diglielo, e raccontagli come a tal fine io venissi… Il resto è silenzio”.
“Il resto è silenzio” vorrei non fosse l’epitaffio della nostra moribonda democrazia. Se potesse accadere un momento di vero silenzio, (nella politica, nella cultura, nell’informazione, nella Chiesa stessa) potrei credere che sia l’inizio di una imprevedibile speranza.
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