È innegabile: i responsabili dei palinsesti televisivi hanno uno spiccato senso dell’umorismo. Nero. In quest’anno di pandemia, dopo i quotidiani bollettini di guerra dei TG, dopo gli approfondimenti con il virologo di turno, dopo le conferenze stampa del Primo Ministro e dei Presidenti di Regione, quali film mandavano in onda, la sera, per aiutarci ad allontanare l’ansia da catastrofe imminente? Virus, Pandemic, La tempesta perfetta, Terrore ad alta quota. E via così, con terremoti, terrorismo, sciagure varie. E i documentari? Pompei.
Questi ultimi, tuttavia, ho deciso di guardarli. Mi ha sempre affascinato la storia, non quella delle date e delle battaglie, ma quella che indaga la vita della gente comune vissuta secoli addietro: persone che, con le loro abitudini e i loro comportamenti, hanno contribuito a determinare lo svolgersi degli eventi, persone che hanno camminato sulle stesse pietre su cui camminiamo noi ora, che hanno creato, amato, odiato, sofferto ed hanno subìto l’ingiustizia dell’oblio. Pompei ci parla di loro, ce le restituisce nella loro quotidianità.
Così mi sono seduta tranquilla davanti al televisore e ho deciso di farmi del male anche con Pompei. E invece mi sono fatta del bene, perché i due documentari che ho seguito – Stanotte a Pompei – ultime scoperte e Pompei, le ultime scoperte – mi hanno tenuto incollata alla poltrona e mi hanno suggerito pensieri positivi. Soprattutto il secondo, che mostrava la squadra di ricercatori al lavoro e ne catturava le emozioni attraverso gli sguardi e i commenti.
Le scoperte sono note: due domus – denominate Casa di Giove e Casa del giardino – da cui sono affiorati mosaici mai visti prima ed affreschi perfettamente conservati; un termopolio con recipienti contenenti ancora resti di cibo e di vino e decorato con affreschi vivacissimi; gli scheletri completi di due uomini, probabilmente uno schiavo e il suo dominus; altre ossa che è stato possibile ricomporre solo in parte; e la scoperta forse più importante dal punto di vista storico: l’eruzione non sarebbe avvenuta il 24 agosto del 79 d.C., ma in ottobre, probabilmente il 24. Lo testimoniano una data tracciata a carboncino su un muro e la consulenza di un paleografo.
Ma ciò che più mi ha coinvolto è stato l’atteggiamento degli studiosi. La restauratrice, dopo avere spennellato con delicatezza i calchi dei due fuggitivi, i cui corpi avevano lasciato impronte nitide nella colata piroclastica, si rivolge alla videocamera e dice “Qui parliamo di volti, di espressioni anche disperate. Si va con profondo e silenzioso rispetto”. La anima la consapevolezza che si possa fare qualcosa per riconsegnare alla Storia persone che erano rimaste sepolte per duemila anni. “Così vivranno per sempre”- conclude. E la voce le trema.
E non è l’unica emozione. Scavando nella Casa del giardino, i ricercatori scoprono una stanza con molte ossa disarticolate appartenenti a persone diverse, probabilmente rifugiatesi in quel locale senza finestre per sfuggire all’eruzione. La posizione dei resti, priva di ogni logica, li induce ad ipotizzare che siano state spostate senza alcun rispetto da profanatori di tombe. Comincia allora un delicato lavoro di recupero e ricostruzione, ogni elemento viene estratto con estrema cura, inserito in un sacchetto di plastica e catalogato. Ad un certo punto emerge un cranio. L’antropologa, una bella ragazza coi capelli rossi e ricci, lo prende in mano e lo esamina; lo accarezza con un gesto che a me pare di infinita dolcezza è dice “È una donna, giovane”. Poi lo guarda meglio e, stupita e triste, si corregge: “Sta cambiando i denti, è proprio piccolino! Non è femmina, era… un ragazzino”. Con quel cambio di tempo (è/era) lo riconsegna al suo tempo, alla sua casa, ai suoi affetti. Anche a lei trema la voce.
Ed è proprio quella carezza, del gesto e della voce, a riconciliarmi con la vita, a farmi capire che finché ci saranno persone capaci di pietas, persino Pompei, sepolta da duemila anni, può essere considerata – come dice il direttore del parco archeologico, esitando per il paradosso – una città di vivi.
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