Il prossimo 21 gennaio ricorre il centenario della nascita del PCI. Un partito che per 70 anni è stato parte integrante della storia nazionale e delle vite di milioni di persone. Secondo alcuni quella lunga vicenda politica e umana sarebbe il frutto di una scelta sbagliata a cui è seguita una serie interminabile di errori. Una lettura strumentale e liquidatoria che sarebbe persino comprensibile quando a farla fossero soltanto gli avversari di sempre. Purtroppo spesso vengono imitati da uomini di sinistra o che si proclamano tali. Per molti di loro un giudizio così deformato e deformante è utile solo a giustificare la loro esistenza, per tanti altri a legittimare le giravolte politiche compiute in nome di un generico riformismo tradotto in pratica a mere pratiche di potere e di gestione dell’esistente. A costoro si potrebbero porre due domande semplici: 1) come mai un partito considerato come un “mondo a parte”, una chiesa prigioniera delle sue ortodossie, un soggetto incapace di comprendere il nuovo e aprirsi alla “modernità”, ha conquistato i cuori e le menti di milioni persone, al punto di diventare persino primo partito? 2) come mai una simile impresa non è mai riuscita invece ai partiti che del riformismo e della modernità sarebbero stati i veri interpreti?
La storia del PCI è una storia lunga è complessa. Neppure io che per oltre 20 anni sono stato “funzionario a tempo pieno” e con incarichi di direzione, ho mai pensato di poterla spiegare o sintetizzare in modo acritico o apologetico. Ho sempre pensato che le interpretazione mitologiche o panegiristiche siano dannose quanto quelle dettate da un anticomunismo duro a morire, anche se indubbiamente motivate da ragioni opposte.
Il PCI nacque non da una disputa accademica tra “riformisti” e “rivoluzionari”, ma nel vivo di un contesto nazionale e internazionale che avrebbe segnato l’intero novecento.
Dopo la guerra del 1915/1918 l’Italia era un paese allo sbando alle prese con l’esito disastroso della guerra e le crescenti contraddizioni sociali prodotte da uno sviluppo dell’industria tanto tumultuoso, quanto distorto. Nel 1917 si afferma la rivoluzione in Russia mentre in tutti i paesi europei i partiti socialisti (all’epoca partiti più rappresentativi del movimento operaio) si pongono il problema della rivoluzione in occidente, ma senza indicare vie credibili.
In questo clima e nell’impotenza manifestata dal PSI (paralizzato tra predicazioni rivoluzionarie e riformismo privo di spessore strategico) si forma la componente minoritaria che poi darà vita al Partito Comunista d’Italia. Un partito i cui dirigenti e militanti saranno costretti, con l’avvento del fascismo, a conoscere la durezza della clandestinità, del carcere, dell’esilio. Muore in carcere anche Antonio Gramsci fondatore e poi segretario del partito: l’obiettivo indicato da Mussolini di “impedire a quel cervello di funzionare” era stato raggiunto, ma il pensiero di Gramsci è, ancora oggi, in tanta parte del mondo fonte di ricerca e di ispirazione politica.
Queste le condizioni in cui si temprano gli uomini che poi saranno protagonisti della Resistenza, della Guerra di Liberazione, della nascita della Repubblica, della scrittura della Costituzione.
Il 1948 segna un nuovo spartiacque. Il clima di unità nazionale che, dopo la Liberazione, aveva consentito la formazione di governi con la partecipazione di tutte le forze antifasciste, si interrompe bruscamente. Comincia l’epoca della “guerra fredda”, della divisione del mondo nei due blocchi egemonizzati l’uno dagli USA, l’altro dall’URSS.
I comunisti italiani sono messi nuovamente a dura prova in un paese ancora da ricostruire, ma in cui le ferite prodotte dalla guerra tardano a ricucirsi. Nonostante i tentativi messi in atto per isolarlo e ridurlo a forza residuale (scomunica papale compresa), il PCI diventa partito di massa e protagonista primario delle lotte operaie e popolari, oltre che delle battaglie parlamentari e del governo di molti comuni e province.
La repressione poliziesca e le mille forme di intimidazioni messe in atto anche nei luoghi di lavoro (“reparti confino” e licenziamenti) non sono però sufficienti a piegare un movimento politico che trova le sue ragioni e i suoi consensi non in virtù di una ideologia astratta, ma nella capacità di “aderire a ogni piega della realtà sociale” e di indicare un progetto di cambiamento “strutturale” per l’Italia. Il PCI ha costruito la sua credibilità e la sua forza misurandosi concretamente con i nodi sociali e politici della “ricostruzione” e per un nuovo sviluppo economico capace di superare la fragilità del tessuto produttivo, il dualismo Nord-Sud, l’arretratezza dell’agricoltura. Il PCI non elabora soltanto una strategia politica e programmatica, ma promuove (grazie al suo radicamento crescente) battaglie memorabili per la terra ai contadini, per affermare i diritti dei lavoratori, per l’occupazione e l’emancipazione femminile, per consolidare la democrazia e difendere la Costituzione, per la pace. Un partito, dunque, che sa volare alto interrogandosi (e dando risposte) anche sul rapporto tra intellettuali e popolo, tra governanti e governati.
È in questo rapporto con la società italiana, con gli uomini in carne ed ossa, come avrebbe detto Gramsci, che il PCI ha assunto un ruolo rilevante non solo delle vicende politiche nazionali, ma anche della storia sociale e culturale del nostro Paese.
Certo il PCI fu anche parte integrante della storia del comunismo internazionale.
Il “legame di ferro” con l’Urss nacque e si consolidò negli anni della clandestinità e proseguì ancora a lungo fino agli anni “60. Nel 1968, quando l’URSS invade la Cecoslovacchia per soffocare la “primavera di Praga”, quel legame si incrina profondamente e le distanze diventeranno poi sempre più incolmabili. Sarà Enrico Berlinguer a segnare le tappe del distacco con i paesi del cosiddetto “socialismo reale”: dal discorso di Mosca (1969) con la critica al “modello sovietico” e all’idea del “partito guida”, al 1976 quando afferma la “democrazia come valore universale” valida dunque in tutti i paesi del mondo, al 1979 con le tesi sul nuovo internazionalismo e la costruzione in Europa di rapporti sempre più solidi con i partiti del socialismo europeo.
Con Berlinguer Segretario (eletto nel 1972) il PCI conosce una stagione di credibilità e consensi mai raggiunti da nessun partito comunista. Dopo il golpe in Cile (1973) organizzato dall’esercito cileno e sostenuto dalla Cia, Berlinguer – preoccupato anche dalla piega che stanno prendendo gli eventi in Italia – elabora la strategia del “compromesso storico”, una strategia fondata sull’idea di un rinnovato incontro (dopo quello resistenziale) tra le forze popolari di ispirazione comunista e socialista con quella cattolico-democratica, per la realizzazione di un programma di profondo rinnovamento della società e dello Stato. I suoi detrattori l’hanno poi banalizzata o volutamente confusa con la linea della “solidarietà nazionale” adottata cinque anni dopo (sic!) in una situazione di vera e propria emergenza nazionale.
È utile ricordare che la vittoria del referendum sul divorzio (1974) e le grandi avanzate del 1975 (elezioni regionali, provinciali e comunali) e del 1976 (elezioni politiche) sono il frutto di quella scelta strategica. Ma l’evoluzione del PCI e i suoi successi, il peso crescente dei sindacati e delle lotte operaie e studentesche, le pratiche sempre più diffuse di una democrazia dal basso che investe ogni ambito e sfera della società italiana, mettono in discussione equilibri e assetti sociali che apparivano inamovibili. Il sistema di potere costruito dalla DC dal 1948 in poi comincia a vacillare, grazie anche ai fermenti che attraversano il mondo cattolico e alle aperture post-conciliari della Chiesa. Per fermare questo processo si metteranno in moto forze rilevanti, interne ed esterne.
Dalla strage di Piazza Fontana (1969) all’uccisione di Aldo Moro (1978) l’Italia conoscerà uno dei periodi più bui e sanguinosi della sua storia. Il PCI si espone in prima fila, senza tentennamenti, per contrastare prima la “strategia della tensione” e i “rigurgiti fascisti” e poi la violenza estremista e il terrorismo delle Brigate Rosse.
Ma è nel vivo dei mutamenti economici degli anni “80 (eventi preparatori della cosiddetta globalizzazione) che comincia la crisi del PCI. In un paese già duramente provato dagli eventi del decennio precedente e incapace di produrre un ricambio democratico prende avvio un processo di trasformazione che sconvolgerà l’apparato produttivo del Paese e con esso gli assetti sociali preesistenti.
Gli anni ottanta sono anche gli anni di Reagan e della Thatcher. Con loro si afferma un’idea di liberismo selvaggio (eufemisticamente definito neoliberismo) fondata su tre principi basilari: monetarismo, primato del mercato, smantellamento dello stato sociale. Il reaganismo-thatcherismo diventerà ben presto un modello politico da esportazione, la nuova ideologia che ridisegnerà il mondo.
In Italia, una classe dirigente in affanno (pochi anni dopo, nel 1992, verrà sepolta sotto le macerie di tangentopoli) tenta di riproporre quel modello evitando di interrogarsi sugli effetti che può produrre in un Paese la cui struttura economica e sociale ha poco in comune con USA e GB, mentre l’assetto istituzionale e politico appare ormai gravemente incapace di produrre cambiamenti sostanziali. La “questione morale” che attanaglia il Paese non è infatti una semplice questione di corrotti e corruttori, ma di una politica piegata alla pura gestione del potere e di partiti dominati dalla logica di “occupare” ogni spazio (Berlinguer, intervista rilasciata a Repubblica 1981, dieci anni prima di tangentopoli!).
In una situazione così complessa Berlinguer colloca il PCI nettamente in opposizione al neoliberismo trionfante proponendo una strategia di “alternativa democratica” in cui prende corpo un progetto di trasformazione economica e sociale (che riprende anche il tema dell’austerità, proposto nel 1976). Progetto duramente osteggiato non soltanto dalle forze al governo (DC-PSI), ma anche da oppositori interni contagiati da quel neoliberismo che in Italia troverà in Craxi il protagonista principale.
Berlinguer muore l’11 giugno 1984 in seguito a un malore che l’aveva colpito durante un comizio a Padova; la perdita per il PCI è irreparabile. Nessuno riuscirà più a conciliare le diverse posizioni esistenti al suo interno rese ancora più divaricate dalla crisi in atto. Non ci riuscirà il Segretario “di transizione”, Alessandro Natta, ma neppure la generazione dei quarantenni guidati da Achille Occhetto. L’uscita di scena di Gorbaciov, promotore in URSS di un processo riformatore e poi il crollo del “muro di Berlino” (1989), forniscono il pretesto per imprimere una accelerazione repentina al progetto di cambiamento proposto da Occhetto appena un anno prima. La svolta occhettiana, annunciata a sorpresa nel discorso della “Bolognina” porterà in poco più di un anno allo scioglimento del PCI. Le intenzioni erano di “andare oltre” chiudendo il ciclo del novecento, ma quell’oltre si esaurirà nel cambiamento di un nome e di un simbolo. Il PCI viene sciolto di fatto (Rimini 1991), ma le successive trasformazioni non risolveranno le ragioni che avevano messo in crisi il più grande partito comunista dell’occidente. Una crisi connaturata più alla “novità” della globalizzazione e ai suoi effetti devastanti negli assetti economici e sociali che non ai legami, peraltro recisi da tempo, con il mondo del “socialismo reale” ormai in disfacimento.
Se, a distanza di trent’anni dal dissolvimento del PCI, resta ancora irrisolto (nonostante il fallimento del neoliberismo) il nodo politico e strategico di quale cambiamento sia necessario, se la sinistra ha smarrito ruolo e rappresentanza, se la politica appare sempre più autoreferenziale e piegata alla sola dimensione elettorale e di potere, la conclusione (amara) da trarre è che decretare la morte del PCI non è servita a nulla. Restano 70 anni di una storia e una memoria collettiva che nessuno potrà mai cancellare.
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