È calata la sera e nel tepore della casa odo l’orologio del campanile che scandisce il tempo e rompe il silenzio profondo. Con il calendario che ho sfogliato per un anno, ed ora ho cestinato, vorrei chiedermi se ho sprecato il tempo o l’ho fatto fruttificare. Con l’orologio, che segna il tempo che ho da vivere, vorrei guardare al futuro. A sorreggermi saranno gli autori che ho letto in quest’ultimo tempo e le parole scritte dagli amici per augurarmi il buon anno. Anche i libri e “gli altri” sono luogo di Dio, sono profeti. Alcuni mi invitano ad essere un testimone, altri mi guardano di soppiatto, ci sono coloro che non condividono la mia fede, coloro che si dichiarano atei, quelli che mi dipingono a tinte fosche la vita quotidiana e i giovani che con la loro effervescenza mi incoraggiano. Penso ai malati che muoiono, a chi ripone speranze nel vaccino e a chi non crede alla scienza, come se non fosse sperimentabile, causale, matematizzata, ai politici che subiscono una grottesca rappresentazione, tutti affannati a mediare, meno propensi a decidere.
Qualcuno dice che stiamo vivendo una guerra: non è vero. Le guerre si fanno per uccidere, mentre oggi siamo impegnati per salvare vite. La pandemia ci ha sfidati, ci ha fatto conoscere i nostri limiti. Si è imposta come insormontabile e ci costringe a considerare il mondo ridotto allo spazio delle mura domestiche, a vedere strade sbarrate, a non viaggiare, a chiudere le scuole, i commerci. Ogni giorno è inedito e rivelatore di uno spazio che restringe il desiderio profondo di camminare, di esplorare, di confrontarsi con gli altri.
È bastato un virus per ricordarci il limite del nostro corpo, il luogo della più intensa confidenza, là dove la debolezza e la verità di noi è regalata all’altro in modo assolutamente umano. Tra le strade delle nostre paure, tra i solchi delle solitudini, tra il buio della coscienza si è cercato la tenerezza “che si schiude senza timore” e si svela in un abbraccio, una stretta di mano, una pacca sulla spalla, un sorriso. R. M. Rilke scrive: “Ho bisogno di te che sei partecipe d’ogni mio momento, compagno dolce d’ogni mia pena, mio fratello solo. Ho bisogno di te come il pane!”. Sì, abbiamo bisogno di una parola che consoli, che conforti, che allieti.
Eppure questi limiti, che dimostrano la nostra fragilità e precarietà, possono essere superati dalla speranza, “che non è la certezza che una cosa andrà a finire bene, ma la certezza che quella cosa ha un senso, comunque vada a finire” (Vaclav Havel, citato da Gramellini su un quotidiano nazionale), “è un rischio da correre, addirittura il rischio dei rischi” (Georges Bernanos, citato in un pensiero augurale di un amico). Solo la morte è un limite insuperabile: la nostra società post-moderna e il senso d’onnipotenza dell’individuo vorrebbero valicarlo, ma solo la speranza che ci anima può superare questo limite perché essa procede dalla sapienza e non dalle bio-tecnologie.
La speranza che poniamo nella scoperta dei vaccini capaci di debellare il virus ha anch’essa un limite: richiede che gli uomini e le donne siano coscienti dell’efficacia del vaccino e che tutti si sentano uniti, in una sorte di comunione tra i vivi e coloro che se ne sono andati: i morti vivono stando vicini a coloro che hanno amato, i vivi offrono a loro doni quali la corresponsabilità e la cura di tutti. Me lo ricorda Enzo Bianchi: “L’essenza del cristianesimo è la speranza della vita più forte della morte”. Tuttavia rimane da compiere un ulteriore salto: quello della fede, frutto di dono e al tempo stesso di libera scelta.
Siamo chiamati tutti a rinunciare alla certezza delle nostre visioni parziali, all’egoismo che spinge ad accaparrarci anche dei farmaci, ricordandoci di coloro che vivono nella miseria generata dall’ingordigia, allo sfruttamento politico di emozioni e di post pieni di livore, all’ignoranza banale e rozza di chi propaganda solo odio.
Per vivere un anno veramente nuovo (nel senso autentico del termine!) dovrei percorrere la strada dell’incontro, come mistero che fende l’opacità del banale, dovrei incontrare l’altro per camminare assieme, in un dialogo che feconda la parola, dovrei abbandonare i dissidi, l’ira, riempire la solitudine dell’amico separato, dell’immigrato emarginato, della donna che ha abortito, dell’adolescente che non ha nessuno dentro: ecco come abbracciare i miei limiti e resistere nella speranza. “La risposta è negli occhi con cui stai guardando l’altro” – scrive un amico in un post.
Dovremo tutti vivere con benevolenza, parola scomparsa dai vocabolari della vita, datata, quasi fuori tempo. “Voler bene” è un valore che non viene più proposto dalle famiglie, dalla scuola, dai media, dalla politica. Eppure senza questo valore, la vita non vale: i pensieri sono diventati calcoli, pregiudizi, ricerca della pagliuzza che c’è nell’occhio dell’altro, ossessivo rancore. Le parole s’avvalgono del chiacchiericcio, del pettegolezzo, della parola graffiante, mentre la “parola buona” disarma l’interlocutore che magari è pronto all’attacco. “Parliamo molto, ma siamo spesso analfabeti di bontà” – ci ha detto Papa Francesco a Natale.
La benevolenza ha bisogno più della bellezza che del bene perché essa procede per forza di attrazione non per costrizione e si propaga più per contagio che per precettistica.
L’aveva compreso anche Victor Hugo, che, nel suo celebre, voluminoso romanzo, recentemente rappresentato alla televisione, ha descritto la vita, il tempo, l’uomo, il popolo dei miserabili riscattati dalla bontà di un uomo e dalla misericordia di Dio. L’abbiamo visto praticare da Chiara Lubich e dalle sue compagne durante l’ultima fratricida guerra mondiale: il granellino di senape seminato allora a Trento è diventato oggi un movimento che in tutto il mondo vuole praticare la benevolenza di Dio nel segno dell’unità: il romanzo dell’800 e la concreta pratica evangelica dei giorni d’oggi ci ricordano che il tempo non serve per lamentarci, ma per consolare le lacrime di chi soffre.
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