Si sa, gli italiani amano parlare di cibo. Ne parlano sempre e, incredibilmente, soprattutto mentre lo consumano. Sarà forse per questa curiosa abitudine nazionale, che di recente una questione maccheronica (nel senso letterale del termine) ha appassionato i mezzi di informazione. Uno storico pastificio molisano ha ricordato che i nomi di alcuni formati di pasta, in produzione ancora oggi, rievocano il passato coloniale del nostro Paese: Tripoline, Bengasine, Abissine, Assabesi.
Ora, confesso che non mi appassionano molto le battaglie di coloro i quali vorrebbero cancellare i nomi legati ad un infausto passato, credendo così di esorcizzarlo o, addirittura, di rimuoverne lutti e ferite. Sono, al contrario, convinto che la permanenza di certe voci possa avere una funzione addirittura educativa, possa sollecitare opportuni esercizi di memoria. Una funzione mnemagogica, insomma, come avrebbe detto Primo Levi.
Il ricordo della breve stagione coloniale nostrana, sciagurata come tutte le forme di dominio, è ancora molto presente, benché sbiadito. E poiché non abbiamo mai saputo fare davvero i conti con quella pagina di storia, cullandoci nell’autocertificazione che farebbe di noi, in quanto italiani, «brava gente», molte parole, che da quella esperienza hanno avuto origine, provocano scandali intermittenti e pentimenti tardivi.
Così, mentre rigettiamo il nome di Assabesi per della pasta secca a forma di conchiglie, continuiamo, invece, a gustare gli Assabesi al cioccolato o la torta Assabese, secondo l’antica ricetta della pasticceria torinese Pftafisch. Il nome risale a quando, in occasione dell’Esposizione nazionale-industriale ed artistica, che ebbe luogo a Torino nel 1885, furono esposti in un recinto (gli storici francesi hanno giustamente definito queste esibizioni «zoo umani») tre uomini, una donna e due bambini fatti venire da Assab, il nostro primo acquisto coloniale in terra africana.
In Emilia Romagna è facile trovare dei biscottini dal nome evocativo: Africanetti. Pare che siano stati prodotti per la prima volta a San Giovanni in Persiceto, in provincia di Bologna, nel 1872. Ma con lo stesso nome se ne consumano anche nel Salento. A quell’epoca, il nostro Paese, come quasi tutta l’Europa, fu attraversato da un diffuso interesse per il Continente nero ed i suoi cosiddetti “misteri”. Erano gli anni in cui verso l’Africa si dirigevano gli esploratori, talvolta solitari altre volte, invece, organizzati in vere e proprie spedizioni dalle Società geografiche, avanguardia di quelle potenze europee, che di lì a poco avrebbero avviato una vera e propria spartizione dei territori africani.
L’Italia affrontò l’avventura coloniale durante gli anni della Sinistra storica: con Depretis prima e Crispi poi. È molto probabile che tra i ricettari che occupano qualche mensola delle nostre cucine vi sia Il talismano della felicità, di Ada Boni, la cui prima edizione risale al 1929 e che ancora oggi viene pubblicato. Come tutti i ricettari è stato aggiornato nel tempo. Ma forse, anche nella edizione che si affaccia dai vostri scaffali potete trovare la ricetta della Torta eritrea, evidente omaggio alla nostra prima colonia costituita ufficialmente nel 1890.
Nel tentativo di penetrare verso l’Etiopia, i nostri soldati affrontarono esperienze dolorose, conclusesi con la tragica sconfitta di Adua (1896). I lutti furono maggiori degli onori e pesarono come un macigno su tutta una generazione. Lo hanno testimoniato molti scrittori illustri (da Pascoli a Cardarelli) e ne diede una interessante testimonianza lo stesso Mussolini nel volume Vita di Arnaldo del 1938, in cui ricordò come aleggiassero nei giochi d’infanzia suoi e del fratello prematuramente scomparso i nomi legati a quell’avventura: «Makallè, Toselli, Taitù, Amba-Alagi, Maggiore Galliano».
A quest’ultimo, il quale aveva combattuto ad Adorgat e a Macallè per poi morire ad Adua, Giovanni Pascoli dedicò un componimento: A Ciapin. Il suo ricordo sopravvive oggi, sull’etichetta del liquore Galliano, indispensabile per realizzare un Golden Cadillac o un Golden Dream, due cocktail certificati dall’International Bartenders Association. Certo, Galliano era un eroe. Nessuno scandalo. Ma non vi sarà difficile trovare in qualche negozio liquirizie di una nota marca, che ricordano l’imperatore Menelik e sua moglie Taitù. Una recente pubblicità, avvertiva, un po’ minacciosamente, che Taitù, «la regina delle liquirizie, è tornata per conquistarvi».
Fu con la conquista della Tripolitania e della Cirenaica (nella guerra italo-turca del 1911-1912), che imperversarono sulla tavola degli italiani nomi come Tripolini e Bengasini. Non so se la Barilla produca ancora i suoi Tripolini, ma so per certo che un noto biscottificio bolognese propone omonimi dolcetti alla nocciola e al miele.
Non c’è spazio qui per rievocare i gli effetti, anche sul piano gastronomico, della campagna d’Etiopia e dell’invenzione di una cucina e di una alimentazione “autarchiche”. Per i cultori della materia, consiglio di sfogliare i numeri della «Cucina italiana» dalla metà degli anni Trenta agli inizi degli anni Quaranta. Potreste trovare di vostro gradimento uno Sformato autarchico, dei golosi Autarchini al vapore o dei più asciutti Biscotti sanzionisti. In quegli anni, come si sa, il fascismo cercò di imporre anche una linea di condotta autarchica nello stile domestico e nella lingua. Le parole straniere furono bandite (o, almeno, si tentò di bandirle). E se, nel complesso, la campagna per un neopurismo linguistico non riscosse grandi risultati, alcune parole divennero d’uso comune e non ci abbandonarono più. Oggi, chi si scaglierebbe mai contro l’italianissimo tramezzino?
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