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Cultura

L’AMAREZZA, IL SARCASMO

RENATA BALLERIO - 08/01/2021

sciascia-durrenAnno nuovo, inevitabilmente anniversari nuovi. Nel 2021 si celebreranno i 700 anni dalla morte di Dante e il bicentenario della nascita di Dostoevskij, solo per ricordare i più importanti. Ma l’anno è iniziato con due importanti compleanni, da non dimenticare. Nel gennaio del 1921 a pochi giorni di distanza, ad oltre 1600 chilometri di distanza, nascevano due scrittori, due veri intellettuali. Il 5 gennaio vicino a Berna Friedrich Dürrenmatt e in Sicilia, l’8 gennaio, Leonardo Sciascia.

La radio svizzera già nella mattinata dell’1 gennaio ha reso omaggio ai due uomini di cultura, riconoscendone una speciale complementarietà e ricordando che Sciascia dedicò “Una storia semplice”, suo ultimo libro, proprio allo scrittore svizzero.

Celebrarli è un modo per ricordare non solo la loro scrittura ma due qualità, di cui proprio l’anno lasciato alle spalle ci ha fatto capire il valore. Entrambi gli autori, infatti, hanno saputo testimoniare quanto conti la capacità di gestire, anche attraverso la scrittura letteraria, il pensiero complesso e mettere in campo una immaginazione critica. Forse è pleonastico ricordare che l’anno, in cui tanti luoghi di cultura sono dovuti rimanere chiusi, ci ha messo di fronte al fallimento di una cultura che non apra la mente. Riflessione da fare senza nessun tono disfattista ma necessaria. Sciascia e Dürrenmatt con le loro lucidissime critiche, ora provocatorie ora paradossali, hanno, invece, testimoniato non l’arroganza della ragione ma la fatica della continua ricerca. Alcuni loro testi sembrano gialli indiziari – e per inciso il genere ebbe la sua genesi nell’Ottocento in cui trionfava la fiducia nella indagine razionale – ma mettono di fronte il lettore al caos e ad un senso di scacco.

Il centenario potrebbe essere una ottima occasione per approfondire il parallelo tra i due scrittori, il loro modo di indagare e di interrogarsi sulla ricerca della verità e della giustizia, il loro mettere a nudo le debolezze della società con l’amarezza di Sciascia verso la Sicilia e il sarcasmo polemico di Dürrenmatt contro la Svizzera, da lui definita più noiosa di una domenica.

Sarebbe, soprattutto, un modo per conoscere meglio lo scrittore svizzero, amato da molti estimatori ma spesso ancora valutato secondo luoghi comuni o giudizi limitativi o etichettato come autore di lingua e di cultura tedesca. Ad esempio, nelle celebri Garzantine, e non solo, viene presentato come colui che ha dato nuova dignità letteraria al genere poliziesco (e pensare che lo stesso scrittore parlò di requiem del romanzo poliziesco!) o come il critico caustico dei feticci borghesi e autore dal gusto grottesco. Affermazioni verissime ma giudizi che non afferrano la complessità di questo autore, a volte insolente, capace, però, di esaltare – e quindi di far accettare- anche gli aspetti più enigmatici del nostro esistere. Basti pensare ad una frase contenuta in quel gioiellino narrativo intitolato La morte della Pizia, tradotto da Renata Colorni, figlia di quel convinto europeista che fu Eugenio Colorni.

Scrive Dürrenmatt: “Io con la mia ragionevolezza ho messo in moto una catena di causa e di effetti che hanno dato luogo a un risultato esattamente opposto a quello che avevo in mente di ottenere”. Piccola frase di una sconvolgente densità che può disturbare le nostre tranquille o tranquillizzanti certezze. Il suo pessimismo etico ci fa osservare fino in fondo, senza sconti, il nostro vivere e ci costringe a prendere coscienza delle nostre scelte. Esercizio non facile ma indispensabile; mai come ora. Leggere Dürrenmatt richiede il desiderio di iniziare una partita a scacchi in cui l’avversario sono tante false consolazioni o alibi. Chi vincerà? Non lo sappiamo perché come nei presunti gialli da lui scritti non si riesce a scoprire l’identità del colpevole ma – certamente – scopriremo il fascino del paradosso, di cui fu maestro, lui conoscitore delle scienze e affascinato da Einstein, nonché filosofo anche nei suoi testi teatrali, e ci accompagnerà a capire di quante cose siamo, non colpevoli scoperti, ma complici.

Insomma leggerlo ci aprirà la mente. E forse lo sentiremo meno ostico e ci verrà simbolicamente voglia di bere in sua compagnia un bicchiere di vino, possibilmente bianco, nel suo studio a Neuchâtel, dove si rifugiava disobbedendo ai medici e che ora è un centro culturale progettato da Mario Botta.

E rifletteremo anche su una sua affermazione circa il suo modo di dipingere, visionario, grottesco e di humor nero. Tecnicamente dipingo come un bambino, ma non penso come un bambino. Dipingo per la stessa ragione per cui scrivo: perché penso.

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