Anno nuovo, vita nuova! Un’espressione ripetuta, anche noiosa che abbiamo spesso pronunciato per invocare un futuro diverso, gioioso, portatore di occasioni migliorative rispetto al passato. Poi è arrivato il 2020, anno bisesto, anno funesto, ed è successo tutto quello che poteva succedere. In una simpatica vignetta un giovane dice: ciao, sono l’anno nuovo e il vecchio con la barba e il bastone esclama: stupiscili. La pandemia ci sta devastando ma il nuovo anno sarà caratterizzato dalla vaccinazione di massa (almeno speriamo) che resta la lucina in fondo al tunnel.
Sino ad oggi, l’anno appena concluso, ci ha ‘rifilato’ pericoli sconosciuti e neppure immaginabili con l’aggiunta della crisi economica, dei decessi; di questi ultimi abbiamo superato quota 85.000, ben oltre la media dell’ultimo quinquennio, secondo l’Istat. Una buona percentuale ha coinvolto le persone più avanti negli anni e i portatori anche di altre patologie. Per trovare un simile risultato bisogna tornare al triennio 1916 -1918 in cui si sommavano le tristi conseguenze della Grande Guerra e gli effetti letali dell’epidemia ‘spagnola’. È come se fosse sparita una città di medie dimensioni, come Busto Arsizio, se consideriamo che si tratta di un saldo naturale ossia del rapporto tra nati e morti con un calo del supporto netto migratorio.
Per quanto mi riguarda apprezzo di più il concetto di vecchiaia che quello di anzianità, anche se spesso vengono usati indifferentemente. Etimologicamente anziano deriva da antea ossia prima; riguarda gli appartenenti ad un’epoca anteriore, in assoluto o in relazione ad altri. Vecchio da vetus o vetulus è riferito a quelle persone che sono avanti negli anni, più vicini all’approdo. Quindi il termine vecchiaia dovrebbe essere utilizzato per indicare l’età avanzata mentre l’anzianità è più riferita ad un traguardo, ad esempio quello professionale. Esiste un altro termine l’ageismo (Robert Butler 1969) che riguarda un fenomeno per lo più definito come una forma di discriminazione contro o a favore di qualsiasi gruppo d’età ultra sessantennale. Comunque vecchio è oggi considerato un termine dispregiativo mentre “Le rughe della vecchiaia formano le più belle scritture della vita, quelle sulle quali i bambini imparano a leggere i loro sogni” (Marc Levy).
Ma se c’è discriminazione, come sembra, dei vecchi cosa ne facciamo? Poco tempo fa, l’Istat ci diceva che la popolazione era destinata ad invecchiare gradualmente. L’età media aumenta da 43,5 anni del 2011 fino ad un massimo di 49,8 nel 2059. Dopo quell’anno si sarebbe stabilizzata sul valore di 49,7 a indicare una presumibile conclusione del processo d’invecchiamento. Sino ad allora la vecchiaia, pandemia permettendo, costituirà un fenomeno sociale di rilievo e riguarderà gli ultra sessantenni. Alcuni dovranno lavorare ancora per cinque/dieci anni, gli altri potranno contare sulla buona sorte. Uno scenario interessante è dato dalla capacità di reddito e quindi di spesa di questa fascia della popolazione che certamente influenzerà l’offerta di prodotti e servizi. Già oggi se ci attardassimo di fronte al televisore, tra i programmi delle emittenti locali, troveremmo frequenti e noiosi stacchi pubblicitari su: fissatori per dentiere, pannoloni per incontinenti, poltroncine attrezzate come sali-scendi di scale interne, assi water per facilitare seduta e sollevamento, eliminazione delle vasche da bagno sostituite da eleganti docce dotate di maniglioni e seggiolino, materassi e cuscini particolari in letti semoventi, poltrone che facilitano il riposo assumendo diverse posizioni grazie alle motorizzazioni elettriche applicate, fasce ed apparecchi per dolori di qualsiasi genere, creme rassodanti e anti rughe. Ma si tratta di persone che avranno bisogno, soprattutto, di una diversa socialità e di assistenza geriatrica. Noi, con l’eccezione dell’Emilia e Romagna, non siamo attrezzati per queste necessità. Infine dobbiamo aggiungere le condizioni di maggiore povertà e una peggiorata assistenza sanitaria (molti stanno ancora aspettando il vaccino antinfluenzale). Altri dati recenti ci confortano perché sottolineano la crescita della capacità diagnostica tra le classi di età più giovani e nelle persone con sintomi meno severi. Purtuttavia non possiamo dimenticare quanto accaduto nel periodo della prima fase di pandemia, tra il disastro avvenuto nelle R.S.A. e il trasporto delle bare sui camion dell’Esercito. Eppure in molte iniziative: politici, imprenditori, capi azienda, dirigenti ministeriali, stanno considerando i vecchi molto poco. Ad esempio costoro, in tutte le iniziative recenti, hanno dovuto manifestarne l’aspetto innovativo e digitale. Mi riferisco alle ‘App’: Immuni, IO, al sistema di cashback. Tutti servizi che richiedono una discreta conoscenza informatica.
Ricordo anche il servizio di home banking (in italiano, lingua ormai poco utilizzata, sta per gestione delle operazioni bancarie dal proprio domicilio), certamente molto utile per tutti e in particolare per i vecchi i quali dovrebbero essere aiutati nelle applicazioni specifiche, quanto meno nella loro comprensione, finalità e utilizzo. Ma la banca, con la giustificazione della maggiore sicurezza, grazie all’abbinamento computer/telefonino, ci costringe ad utilizzare sistemi sempre più impegnativi e senza le dovute informazioni preliminari, semplificate, mettendo in crisi tutti coloro i quali non hanno pensato o potuto partecipare ad un processo di ‘scolarizzazione informatica’. Appena completato il trasferimento tecnologico, le banche procederanno alla chiusura di molte filiali oggi operative, con il vantaggio di minori costi del personale. Rimane una curiosità: vero che l’innovazione e la digitalizzazione produrranno posti di lavoro oggi neppure immaginabili, ma dopo questo cambiamento molti operatori bancari, considerati ‘esuberi e obsoleti’ cosa faranno, dove andranno?
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