Si allunga nel centro storico di Varese l’elenco dei negozi e delle attività che alzano bandiera bianca. È infatti di questi giorni l’annuncio che anche l’omonima cartolibreria Milani di via San Martino chiuderà i battenti a partire da metà gennaio. Ufficialmente per raggiunti limiti di età di Alessandro e della moglie Vilma che per trentaquattro anni hanno animato il negozio con la loro competenza e il loro bon ton. Scomparirà una luce nella storica via, un piccolo bazar di pezzi di classe e qualità sapientemente mischiati con libri scolastici, quaderni, matite, gomme, penne biro, block notes, calendari, album da disegno, pupazzi, giocattoli. Prodotti che ancora resistono all’avanzata inesorabile della tecnologia.
Proprio per questa ragione chi ha alcuni decenni sulle spalle si fermava con rassicurante piacere a dare un’occhiata a quel piccolo universo colorato. Era come ravvivare una sorta di legame con il proprio passato di studenti “digital free”. Tra l’altro, una volta archiviati i Milani, sull’asse Corso Matteotti – Piazza Cacciatori delle Alpi (Tribunale) sarà assai difficile sostituire la ricarica di una penna a sfera o di una stilografica, bisognerà infatti risalire fino via Walter Marcobi e rivolgersi alla corazzata dei Villa. Un’altra cartoleria, un’alternativa ai Milani, da via Puccini si era spostata, meno di due anni fa, all’inizio di via Bagaini, ma senza fortuna. Ha chiuso anch’essa.
Quello delle chiusure a catena sembra ormai un trend irreversibile a conferma di quanto scriveva su queste stesse colonne l’amico Sergio Redaelli alla vigilia delle elezioni che, nel giugno 2016, decretarono lo sfratto del centrodestra da Palazzo Estense: “ Piange il piatto dei negozianti, librerie specializzate che chiudono, antiche pasticcerie costrette ad alzare bandiera bianca…anche i sassi sanno che i negozi sono il miglior baluardo contro il degrado del centro e delle periferie, un importante metro di valutazione dei turisti e antidoto al traffico, agli intasamenti e allo smog”. Anche il titolo di quell’articolo “Sindaci alla prova negozio” non ha perso attualità. C’è da scommettere che anche nella prossima campagna elettorale di primavera – Covid permettendo ovviamente – tutti gli aspiranti vecchi e nuovi a Palazzo Estense faranno a gara nello stigmatizzare il progressivo svuotamento del centro storico e nel promettere imminenti rifioriture.
Al di là delle promesse di circostanza, non sarà certo facile perché al fondo del problema vi è un pilastro, in apparenza inattaccabile dello sviluppo capitalistico, che si chiama rendita immobiliare, cioè l’insieme della rendita fondiaria e di quella edilizia. La rinuncia a controllarla o almeno a mitigarla – fanno eccezione alcuni paesi del Nord Europa – sta provocando una selezione selvaggia nei centri storici dove hanno preso sempre più piede le grandi catene commerciali e del terziario, le sole in grado di reggere affitti sempre più onerosi e dunque capaci di imporre anche una sorta di monocultura di prodotto che a Varese, ma altrove è la stessa cosa, si materializza in un’offerta ipertrofica soprattutto di abbigliamento e occhiali. Solo chi è padrone dei muri ha qualche possibilità di reggere. Ognuno può infatti constatare di persona che nel cuore della città giardino (Corso Matteotti) resistono ormai un solo caffè – pasticceria, una pescheria e una gastronomia. Davvero poco rispetto a un passato non molto remoto dove la diversificazione dell’offerta era la regola.
Non si tratta, è evidente, di essere passatisti ma di essere perlomeno consapevoli che il centro come luogo di incontri, relazioni, scambi – anche culturali, pensiamo alle Gallerie d’arte oltre che alle librerie – si sta progressivamente inaridendo. Invertire la rotta non sarà semplice ma alcune strade di medio/lungo periodo possono essere battute:
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