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Cultura

SILENZIO

RENATA BALLERIO - 24/12/2020

Edward Munch, Notte stellata, 1924

Edward Munch, Notte stellata, 1924

C’era la guerra, e il presepe fu interrotto: ne riprendemmo la tradizione giusto per il Natale del ‘43 che ci faceva trovare di nuovo tutti assieme… anche se le sorelle chiesero che, a causa del coprifuoco, ci recassimo a trascorrere il Natale a turno da ciascuna di loro. Così scrive Michele Prisco in un opuscoletto per l’editore Gabriele Benincasa, che chiedeva ad alcuni suoi amici scrittori un raccontino che avrebbe poi regalato come augurio natalizio. Il brevissimo racconto di Prisco, intitolato L’ultimo Natale, sembra offrirci un confronto adeguato al nostro Natale. O meglio una riflessione. Diciamo subito che quanto abbiamo vissuto e stiamo vivendo non deve essere paragonato a situazioni belliche, anche se, forse perché impreparati, erroneamente abbiamo usato tutti, chi più chi meno, un linguaggio con similitudini e metafore belliche.

Perché allora ricordare il Natale di guerra rievocato con serena pacatezza da Prisco? Abbiamo la risposta nella conclusione del racconto. Quella sera -afferma l’autore- per la prima vidi un albero di Natale: per la prima volta capìi che un capitolo della mia vita si chiudeva.

L’albero era un insieme di alberi issati sul gran pavese, giganteschi abeti con lunghi fili d’argento e le lampadine colorate che si accendevano e si spegnevano ad intermittenza… e nel silenzio (la scena è ambientata nel porto di Napoli) si sentivano le voci roche dei gabbiani, frastornati dalla novità.

Non c’è dubbio che anche noi siamo frastornati da un modo diverso di celebrare il Natale.

Forse, però, non abbiamo raggiunto l’equilibrata consapevolezza dello scrittore napoletano, perché portati a confondere il valore profondo della tradizione con le abitudini da essa derivate. O addirittura ad affermare in questo Natale 2020 che nulla sarà più come prima: non abbiamo bisogno di nostalgia e nemmeno di disperazione verbale ma di consapevolezza per un vitale cambiamento.

Un altro scrittore ci viene in soccorso quasi a darci quella consapevolezza raggiunta da Prisco e dai noi ricercata. Nel breve romanzo postumo, quasi un saggio, Il presepio, di Giorgio Manganelli, morto trent’anni fa, troviamo, pur con un linguaggio provocatorio ma sempre lucido, molti sguardi sulla tradizione natalizia. Sguardi che ci interpellano, che quasi ci spiazzano. Esiste- ci viene ricordato - certamente, una felicità natalizia ma essa è intrecciata indissolubilmente ad una infelicità natalizia. Ogni vera festa è gioiosa e angosciosa, e perderebbe senso se uno solo dei suoi elementi prevalesse sino a far dimenticare l’altro. Un senso che forse l’abitudine ci ha fatto perdere, come abbiamo perso il significato profondo di tante tradizioni. Sempre Manganelli ci ricorda che Il bue e l’asino non esistevano; nacquero da un genitivo plurale frainteso da un monaco. Quando costui scrisse “ tra due animali” anziché “ tra due età”, i due animali si materializzarono, con perplessi ragli e mugghi.

E male non sarebbe ricordare che Gesù indica proprio il passaggio di due età, anzi sta tra due epoche.

Se la pandemia è stata un trauma collettivo, definizione data con acutezza da Chiara Tintori, ricercatrice e scrittrice, è quindi giusto riflettere che c’è un pre pandemia e ci sarà un post pandemia. Quasi un’ovvietà, ma è importante capire che cosa ci mettiamo in mezzo. Così facendo anche questo Natale non sarà inteso solo come perdita di abitudini ma come occasione per accogliere il senso più vero della tradizione, cioè di quanto ci è stato consegnato.

Magari, proprio per questo, con rinnovata speranza anche noi potremmo scrivere quanto leggiamo nella poesia Lettera 1951 di Maria Luisa Spaziani: Natale altro non è questo immenso silenzio che dilaga per le strade …e sono qui con il tuo dono che mi illumina.

Ma forse più semplicemente potremo inviare un biglietto di Merry Xstmas, a patto di ricordarci che l’augurio risale al 1565 e invita ad una piacevole allegria…ben diversa dallo scontato Happy.

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