Certo che vedere l’argentino Lionel Messi, idolo pedatorio mondiale, il più grande dei grandi, scivolare goffamente come l’ultimo dei brocchi sul ‘manto erboso’ di San Siro, calciando una punizione verso la porta del Milan, è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Al termine di Milan-Barcellona, quarti di finale d’andata di Champions League, unanime il coro di lamentele. ‘San Siro sotto accusa’. Così titolava la Gazzetta dello Sport riportando le rimostranze della squadra catalana che metteva perfino in dubbio la regolarità della partita.
Tutti concordi nel denunciare le pessime condizioni agronomiche del campo: da Pepp Guardiola a Messi, da Clarence Seedorf ad Adriano Galliani. Ormai da decenni le condizioni del prato del Meazza tengono banco e riempiono le pagine dei quotidiani, specializzati e no. Anche l’incompetente non può non vedere le zolle di erba che si sollevano, i buchi e gli avvallamenti che costringono i nostri eroi della pedata a pericolosi giochi d’equilibrio per reggersi in piedi.
Insomma in quella che pomposamente è definita la Scala del calcio italiano, i tenori sempre più spesso stonano per colpa di un palcoscenico buono neppure per il teatrino dell’oratorio di paese .
Il problema, irrisolto, si trascina, tra alti e bassi, ormai da più di vent’anni. Da quel Milan-Como (0-2) del gennaio ‘87 quando lo svedese Niels Liedholm, allenatore- guru del Milan, addossò alle condizioni del campo, duro e ricoperto di ghiaccio, le colpe dell’inattesa e inopportuna sconfitta patita dai rossoneri. Il neo-presidente Berlusconi esclamò “Ghe pensì mì!”, e via ai lavori di ammodernamento con la posa di un riscaldamento sotterraneo antigelo e con l’eliminazione della baulatura del campo, utilissima per lo sgrondo dell’acqua ma sconveniente per le riprese televisive. Di lì a poco arrivò il colpo mortale: la costruzione del terzo anello in occasione di Italia ’90, la sciagurata edizione dei mondiali di calcio nel nostro Paese che ben poco portò allo sport nazionale e molto invece nelle tasche di qualcuno.
A dir di molti questo anello aggiunto, togliendo luce e aria al manto erboso, rappresentò la madre di tutti i guai. Al capezzale di San Siro si sono succeduti una serie infinita di esperti e tecnici. Ognuno a dire la sua con le sue spiegazioni e le sue soluzioni, alcune delle quali veramente strampalate. Luci artificiali 24 ore su 24, ventilatori in funzione per rimescolare l’aria stagnante, semi e concimi miracolosi, team tecnici in giro per il mondo ad ispezionare e copiare gli stadi esteri… Il risultato finale di tanta discussione era ed è sempre lo stesso: rizollatura dell’intero terreno da gioco ovverosia rifacimento completo, con frequenza anche mensile, del campo con la posa di tappeto in zolle su sabbia. Costo dell’operazione: duecento-trecentomila euro a botta per un costo totale annuo che arriva a superare il milione di euro. Non bruscolini, visto anche il pessimo risultato ottenuto che è sotto gli occhi di tutto il mondo sportivo: un campo di patate anziché di football.
Che la copertura c’entri in qualche misura è fuori di dubbio; che sia la madre di tutte le sciagure è invece, a mio modesto parere, abbastanza opinabile. Basta riflettere su cosa avviene in altri stadi, dove la copertura non esiste. L’altra settimana il terreno del Bentegodi, per Chievo-Milan, a detta dei commentatori televisivi, era in condizioni disastrose, a dispetto del rifacimento ex-novo con le zolle avvenuto poche settimane prima; e lo stadio di Verona non ha un terzo anello opprimente e soffocante.
Lo stesso avviene a Bergamo nello stadio dell’Atalanta costruito nel ventennio senza anelli o coperture. E che dire del nuovissimo Juventus Stadium di Torino, appena costruito con tutti i crismi della moderna tecnologia e già in condizioni preoccupanti tanto da dover essere già parzialmente sistemato con nuove zolle?
È evidente, alla luce dei fatti, che la posa di prato a zolle sia una non-soluzione, oltretutto estremamente onerosa. Oltre all’esborso che il rifacimento periodico comporta, si devono aggiungere una serie di costosissime attenzioni – diserbi, concimazioni, bucature, rigenerazioni, trattamenti antiparassitari e fungicidi – che non fanno altro che creare un ambiente artificiale, fragilissimo, incapace di adattarsi a condizioni di vita non certo ottimali quali quelle di uno stadio quasi interamente coperto. Si innesca un circolo vizioso: tappeto a zolle delicato, cure assillanti per proteggerlo, erba tenerissima che non ha la forza di radicare e di consolidarsi in un ambiente ostile. Eppure da ormai vent’anni si persevera con questa non-soluzione.
“Il vero giardiniere è colui che anzitutto coltiva il terreno” questa affermazione non di un tecnico, ma di un drammaturgo, il ceco Karel Capeck, contiene una profonda verità. Il seme germinando si sviluppa dapprima verso il basso, affranca le radici nel terreno per ancorarsi e per nutrirsi, e solo successivamente si sviluppa verso l’alto. A San Siro e in tanti altri campi prestigiosi italiani ci si sta sforzando di fare il contrario di ciò che avviene in natura; si privilegia la parte superiore, l’erba, che deve essere ovviamente verde intenso, folta e sana; poco importa delle radici. Ci si ostina a usare zolle ben compatte, ma con radici fragili e poco profonde. La posa avviene all’inizio della settimana e alla domenica ci si deve giocare sopra. E quando mai le radici possono penetrare nel terreno sottostante per affrancarsi? È come posare un bel tappeto persiano su un pavimento in marmo senza metterci sotto la rete antiscivolo. Ottimo effetto estetico, basta non camminarci sopra!
La fretta, il non mettersi in sintonia con la natura e non la carenza di luce sono il reale problema. La verità è che basterebbe rifare tutto, preparare in modo appropriato, con le giuste pendenze e i giusti dreni, il terreno e – udite udite – semplicemente seminare e non impiegare tappeto a rotoli. Certo, si dovrà poi aspettare, quattro-sei mesi almeno, per giocarci sopra cosicché la cotica si affranchi con belle e robuste radici capaci di andare in profondità. Si avrà così un campo da gioco duraturo e non un bel parrucchino che alla prima folata di vento si solleva e se ne va via.
Qualcuno obbietterà: ma non ci sono i tempi per aspettare… lo spettacolo, il business, le esigenze televisive… Bene, l’alternativa è allora un bel campo sintetico, artificiale o semiartificiale, con buona pace alla poesia e al fascino del calcio.
Il nostro caro, vecchio “obsoleto” campo del Franco Ossola fu costruito nel lontano 1935; allora si chiamava Stadio del Littorio. Il suo fondo e gli interventi manutentivi sono rimasti pressoché uguali: baulatura “a dorso d’asino” della superficie per favorire lo sgrondo dell’acqua, drenaggi a spina di pesce, semina e non zolle; tanta tecnica, ma anche tanto buon senso… E così il Corriere della Sera dei giorni scorsi dava i voti ai campi sportivi italiani: per il campo del Varese un bel 7 in pagella – tra i migliori in Italia – e per San Siro un bel 3. Con una piccola e significativa differenza – aggiungo io –: le spese manutentive del Meazza assommano a oltre un milione di euro all’anno, quelle del Franco Ossola raggiungono i trentamila euro all’anno!
Che l’erba del vicino non sia sempre la più verde?
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