Da questo governo di tecnici di conclamata competenza economica è lecito attendersi qualcosa di più di quanto fin ora fatto in tema di politica fiscale, da sempre il nervo scoperto di tutti i governi che si sono accomodati a Palazzo Chigi durante l’ormai lungo percorso democratico e repubblicano. Nel corso dei decenni lo Stato italiano è diventato una sorta di vorace predatore delle risorse del paese senza apprezzabili soluzioni di continuità rispetto alla sua fase nascente e con una stella polare dominante: l’inasprimento nel tempo di imposte e tasse come rimedio permanente alle difficoltà di cassa e di bilancio. Tutto questo mentre nel cuore dell’amministrazione si andavano accumulando incredibili privilegi, inefficienze paurose, ruberie sistematiche, sprechi colossali, costi della politica spropositati e nel tessuto sociale e produttivo si consolidavano corporazioni impermeabili o quasi a qualsiasi assunzione di responsabilità collettiva.
Il perpetuarsi di una simile politica ha sempre avuto e purtroppo continua ad avere la giustificazione dell’urgenza. In altre parole “Annibale è sempre alle porte” e in effetti dal profilo strettamente economico finanziario lo è stato più volte come sta accadendo del resto anche in questi tribolatissimi mesi. Tuttavia anche quando la minaccia del mitico condottiero cartaginese si affievoliva o addirittura sembrava svanire, gli esecutivi nazionali si sono sempre ben guardati dal porre mano a una radicale riforma dello Stato capace di annullare la voracità dello stesso e quindi di restituire slancio e risorse al paese e ai suoi cittadini. È questo un passaggio obbligato, ormai irrinunciabile, pena una sorta di deriva qualunquistica non priva di rischi per la stessa tenuta democratica delle istituzioni repubblicane. In questa direzione i segnali del governo tecnico di Mario Monti sono stati timidi e incerti.
È vero che i tagli alla spesa pubblica improduttiva richiedono valutazioni e approfondimenti ben ponderati, che le operazioni di riordino in corso non sono più rinviabili ma è altrettanto vero che non si possono di continuo lanciare ai cittadini, mi auguro solo per insipienza comunicativa, segnali allarmanti e inutilmente vessatori. Come è accaduto, per esempio, nei giorni scorsi per un nuovo minacciato aumento delle accise sui carburanti (57,1% del prezzo totale !), ovviamente sempre irreversibili, per coprire i costi di eventuali e per nulla escludibili – data la precaria situazione idrogeologica del paese – nuove catastrofi naturali. Insomma una sorta di rinnovato e continuo accanimento fiscale su beni primari per il funzionamento del paese i cui costi sono in buona misura responsabili delle fiammate inflazionistiche che ciascuno di noi può toccare con mano facendo la spesa al supermercato. Stupisce davvero che siano proprio i professori a commettere errori così elementari, a fare annunci che aumentano le attese inflazionistiche ben al di là dei dati reali. Forse varrebbe la pena di tenere un occhio vigile in Italia e in Europa a un fenomeno economico già conosciuto dopo il primo shock petrolifero del 1973-’74, quello della stagflazione. Un termine di sicuro inelegante ma efficace perché indica la contemporanea presenza di una mancata crescita (stagnazione) e di una persistente tensione sui prezzi (inflazione). Un bruttissimo avversario da affrontare soprattutto se si considera l’enorme peso assunto nella formazione dei prezzi dai grandi oligopoli energetici.
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