Era arrivato lì, ma nessuno sapeva come. Nella grande clinica, fresca di costruzione in uno dei quartieri più eleganti della capitale, il bambino andava e veniva tra i reparti ma dei genitori nessuna traccia.
D’altronde il personale sanitario aveva ben altro da fare: l’ospedale, fiore all’occhiello di una multinazionale, era stato rapidamente convertito per le cure anti-covid. Ogni giorno una lunga, dolente, fila di persone ne varcava i cancelli a piedi o in ambulanza vuoi per un tampone, vuoi per un consulto, vuoi ahimè per una terapia intensiva.
Ed il bambino era lì. Lo incontravano per caso le infermiere durante una accesa discussione in sala su chi dovesse andare dalla signora Bianchetti che per la decima volta in una mattina aveva suonato il campanello. Ore di snervanti turni e di straordinari avevano logorato i rapporti tra colleghi. Ma bastava il sorriso di quel visetto per stemperare subito i veleni accumulati.
Lo incontravano i cuochi e gli impiegati delle mense. In mezzo ai fumi delle cucine, alle norme igieniche e tra le decine di richieste di pasti personalizzati, scorgevano la chioma riccia e nera di quella testolina che rideva ed immediatamente la nebbia della fatica si disperdeva. Il personale tornava il lavoro più lieto e chissà perché’ quel giorno anche il cibo era più buono.
Comparve durante un ‘meeting’ di medici che dovevano affrontare lo straziante tema delle morti in solitudine. Dell’impossibilità per i parenti più stretti di poter almeno salutare il papà, la mamma, il marito, la moglie. Sembrava un problema doloroso e insolubile. Quel giorno il bimbo entrò nella sala riunioni con una tela cerata a mo’ di mantellina che copriva tutto il corpo. Ad uno dei medici presenti venne l’idea di allestire una stanza dell’abbraccio dove, tra decine di schermi e protezioni, i congiunti potessero almeno guardarsi in faccia e magari dare anche una carezza. Ad un chirurgo iraniano il bimbo apparve in sogno proponendogli di aprire una corsia gratuita riservata a pazienti extracomunitari. Contro ogni aspettativa il consiglio di amministrazione del gruppo disse di ‘si’.
La clinica insomma faceva parlare di sé. Il primario non se ne capacitava ma, per passa parola, la città conosceva una struttura non solo efficiente ma anche coinvolgente dove il clima empatico tra medici e pazienti stemperava l’inevitabile umano dolore. E le domande di accettazione crescevano.
I politici in vista della vicina campagna elettorale per il sindaco cominciarono ad interessarsene. Il centro destra faceva notare come ancora una volta la buona borghesia romana avesse dato vita ad una struttura di eccellenza. La sinistra controbatteva portando la clinica ad esempio della propria ottima gestione della sanità nel Lazio. I partiti del centro portavano la moderatezza e l’inclusione dell’ospedale, come riusciti esempi dei propri valori. Il sindaco grillino in carica non mancò di inaugurarne il nuovo parcheggio per mezzi elettrici.
Ma la domanda su chi fosse quel bambino rimaneva. Anzi si infittiva. Se ne facevano carico i giornalisti che, a volte camuffati da pazienti, battevano reparti e corridoi cercando di stanarlo.
Caso strano: più in clinica erano presenti i ‘media’ più il fanciullo non si faceva vedere, a volte anche per giorni.
A dissipare i dubbi giunse infine una delegazione delle principali associazioni etniche italiane. Avendo saputo di quanto la clinica facesse per i rispettivi connazionali portarono in omaggio alla direzione sanitaria aromi e preziosi delle loro terre. E pochi giorni dopo dalla reception il portiere agitato telefonava al primario per dirgli: ci sono qui un papà e una mamma che da giorni cercano il loro bambino. Lei continua a ripetere: “Figlio mio perché ci hai fatto questo?”.
Dei tre a Roma poi non si seppe più nulla.
Ma questo tutto sommato non è un problema. Anche oggi Cristo rinasce. Il dove lo sceglierà Lui.
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