Cento anni fa venne pubblicata una poesia intitolata “Dall’immagine tesa”. Si tratta dell’ultimo componimento della raccolta “Canti anonimi” di Clemente Rebora. E quei versi sono da molti considerati il capolavoro del poeta, che si era definito professoruccio filantropo, e sacerdote rosminiano, morto a Stresa nel 1957. Versi da rileggere perché esprimono con intensità il senso profondo dell’attesa. Versi adatti non solo al periodo dell’Avvento, tempo, per l’appunto, di attesa secondo la liturgia, ma anche alla riflessione, personale e laica, del nostro vivere.
In questo 2020, percepito come spasmodica attesa di uscire dall’incubo del virus, molti si sono sentiti privati del proprio tempo: un anno sprecato perché non si sono realizzati i progetti, i viaggi programmati, con abitudini quasi cristallizzate in un tempo sospeso.
Certamente la vita ha senso nel dinamismo di esperienze e di incontri, ma è solo il virus ad averci rubato il tempo? La risposta la diede tanti secoli fa Seneca nel suo De Brevitate vitae. Scrisse che il maggior ostacolo del vivere è l’attesa, che dipende dal domani ma spreca l’oggi.
Riflessione che obbliga – faticoso obbligo, a dire il vero,- a chiederci con durezza che cosa aspettiamo e come sprechiamo – anche senza il virus – il nostro tempo. Grandi domande universali della letteratura e della filosofia.
Clemente Luigi Antonio Rebora, figlio di un garibaldino, da cui ricevette una educazione laica, che visse, però, la sua vita, ancora prima della conversione, con intransigenza morale, ha dato una risposta al senso dell’attesa. Senso, come significato e direzione, ben testimoniato anche dalla sua stessa vita. Lui, prima della crisi religiosa del 1928 che lo portò alla conversione, attraversò intensamente la vita: relazione amorosa con una pianista russa, esperienza drammatica vedendo gli orrori della prima guerra mondiale, poeta, insegnante, conferenziere e attivo con pagine pedagogiche sulla Rivista “La Voce”.
Insomma la vita inquieta di chi cerca ma ben diversa dalla frustrazione di chi fallisce nel cercare un punto certo di arrivo, come per i protagonisti di Aspettando Godot. L’assurdo dell’incertezza di Becket contro la coscienza, la tensione della coscienza, per una certezza da incontrare, come dovrebbe essere il tempo dell’Avvento.
Rebora inizia la sua poesia con una martellante affermazione : “ e non aspetto nessuno” e fissa il senso dell’attesa in un dilatato gioco di rima (tesa, attesa). E quel suo non aspettare nessuno si trasforma quasi in un grido incredulo: “ ma deve venire,/verrà, se resisto…/verrà come ristoro…verrà, forse già viene/ il suo bisbiglio”. E Rebora spiegò che la voce di Dio è, sottile, appena un ronzio… bisogna saperla ascoltarla, anche al di là del caos della storia. O meglio in un tempo interiorizzato: e questo vale per tutti, credenti e non credenti, soprattutto in questo Avvento del 2020.
Magari non supereremo la tristezza rabbiosa di questo anno assurdo, che ci ha fatto percepire in modo diverso lo spietato fluire dei giorni ma, forse, guarderemo in modo diverso noi stessi e il mondo. E proprio per questo con occhi diversi possiamo perfino ammirare la corona dell’Avvento.
Sarà un caso che la corona, con le candele, i rami di sempreverdi intrecciati, nata fine del 1800 dall’idea di pastore protestante, si diffuse proprio cento anni fa?
You must be logged in to post a comment Login